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GIOVANNA MARINI: un urlo sempre dall’altra parte del potere

Quel 1° aprile 2009, sul palco del Teatro Giacosa di Aosta, c’era Ambrogio Sparagna, virtuoso dell’organetto e grande divulgatore di musica popolare, che proponeva il suo spettacolo “Eccolo maggio!Canti di festa (e di lavoro) della tradizione popolare italiana”.

E c’era l’Orchestra Popolare Italiana, da lui formata con giovani musicisti provenienti da varie regioni che suonavano strumenti popolari tipici della tradizione italiana (in quell’occasione ne facevano parte anche i Trouveur Valdoten).

Ma, soprattutto, sul palco del Teatro Giacosa c’era Giovanna Salviucci in Marini (Roma 19 gennaio 1937), la cantautrice e ricercatrice etnomusicale romana che da quasi mezzo secolo porta avanti con coerenza la causa della canzone sociale in Italia. Proprio quel tipo di canti che pochi giorni prima Silvio Berlusconi aveva definito “pieni di cattiverie”.

1- 31_maggio_2003-Giovanna_Marini,_Francesco_De_Gregori

«Mi ricorda quella signora– ribattè la Marini- che quando, nel 1964, presentammo a Spoleto, con Giovanna Daffini ed altri rappresentanti della cultura contadina, lo spettacolo di canto sociale “Bella Ciao” disse:  “Io non ho pagato mille lire per sentire cantare sul palcoscenico la mia donna di servizio.”
Non avrebbe potuto pensarla diversamente questa “donna adorabile” (come l’ha definita l’amico Francesco De Gregori, con cui nel 2002 ha registrato il Cd “Il fischio del vapore”) che è stata definita ”un urlo a volte sgraziato e scomposto, ma sempre dall’altra parte del potere”. E lo è fin da quel fatidico 1964 in cui, col marito, si trasferì negli Stati Uniti scossi dall’assassinio del Presidente Kennedy. «Lì il Sessantotto è successo nel 1964– affermò- perché quel delitto ha smosso le coscienze facendo sì che tutti uscissero dal proprio guscio. Mi ricordo a Boston i primi sit-in, dopo i quali ci ritrovavamo all’università con Pete Seeger. Cantavo al “Club 47” dove veniva un ricciutello prepotente che voleva cantare sempre lui. Si chiamava Robert Zimmermann, ma è diventato famoso come Bob Dylan».servizio”. Entrambi identificano in quel tipo di voce e canzone tutta la negatività che ci può essere nella lotta sociale, per cui sentono minacciato il loro potere da qualcuno che, pensano, voglia appropriarsene per usarlo con la stessa cattiveria con cui lo usano loro. Abbiamo, comunque, fatto sapere a Berlusconi che le canzoni popolari non possono essere cattive perché nascono nell’interesse comune della collettività, quindi c’è una larghissima fetta di popolazione che le pensa, le condivide e le canta. Mentre la canzone del singolo, come potrebbe essere il suo Apicella, può nascere anche per un interesse privato».

Marini3Nel 1967 la Marini descrisse questa esperienza nella spietata ballata “Vi parlo dell’America” in cui cantava: ”E’ tutta da combattere, è tutta da distruggere, non c’è niente da salvare”. «C’è l’avevo con quell’America di Lyndon Johnson che era simile a quella di George Bush. Solo che allora il paese aveva una grande anima che poi è scomparsa, salvo, poi, rispuntare con Obama. A proposito delle parole di quella ballata, ho notato che cose che allora cantavamo tranquillamente adesso è difficile farle perché la gente si spaventa. Purtroppo la politica italiana ci ha insegnato ad usare tutta una serie di giri di parole perché non si può più avere un nemico, anche perché non si sa mai. Non è “politically correct” parlare male di qualcuno anche se lo merita, e si è guardati con diffidenza anche dalla brava gente che pensa sia pericoloso esporsi. E, invece, ora lo si deve assolutamente fare».

Marini-Capossela 954361_247865407_nTra le canzoni che eseguì ad Aosta anche “Un paese vuol dire non essere soli” di un valdostano d’adozione: il compianto Mario Pogliotti.

«Faceva parte– ricordò- del gruppo dei “Cantacronache”, a cui noi giovani ci siamo ispirati. E’ stato autore di canzoni intelligenti, di quelle che si facevano prima che “ci tagliassero le gambe”. “Un paese vuol dire” è una canzone “lacerante” che ho registrato per il mio  Cd, pubblicato dal “Il Manifesto, cui ha dato il titolo».

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