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Teatro

Le musicalissime corna de “La scuola delle mogli” di Valter MALOSTI

Se, come teorizzava Molière, la vita è malattia, l’amore ne è una delle sue espressioni più virulente. Si pensi, per esempio, a quel quadro ossessivo-compulsivo che è la gelosia. Il commediografo francese lo provò in prima persona quando nel 1662, maturo quarantenne, impalmò la ventenne Armande Béjart. Non è, quindi, un caso che il 26 dicembre 1662 rappresentasse per la prima volta, al Teatro del Palais-Royal di Parigi, “La scuola delle mogli”, commedia il cui ossessivo filo conduttore sono le corna. Un grande cervo imbalsamato domina, non a caso, l’allestimento di Valter Malosti andato in scena lo scorso 10 aprile al Teatro Giacosa di Aosta per la rassegna “Scenario Sensibile”. Insieme ad una scacchiera sulla quale si gioca la partita tra Arnolfo (Valter Malosti), il maturo protagonista della commedia, e la giovane Agnese (Giulia Cotugno), ”una deficiente che dipende da me completamente” che vorrebbe sposare e nel frattempo rinchiude in una casa per bambole. Il finale è scontato, con il trionfo dell’amore di questa con il coetaneo Orazio (Marco Imparato) ed un’Arnolfo diventato “socio del club dei cornuti” che se ne esce con un surreale “Mi hai fatto del male. Non ci hai pensato?”. Nel ricrearne il testo, Malosti è ricorso ad una intrigante ed ininterrotta colonna sonora per ritrovare «la folgorante musica di Molière, che nell’originale francese deflagra e scintilla per mezzo del verso libero e delle rime.» Ne è uscita una musicalissima operina, in cui le parole acquistano ulteriore risonanza grazie al melodramma di Verdi e Puccini, ai Beatles di “Being for the Benefit of Mr. Kite!”, a Giorgio Gaber, al rap Mc Solaar (“mi ha colpito una critica che aveva paragonato i rapper della banlieu parigina al ritmo dei versi alessandrini a rime baciate di Moliere”). «Nella pièce ho colto un carattere visionario,- ha dichiarato Malosti – il delirio in cui sprofonda il protagonista al termine della commedia, si trasforma in una vera e propria anatomia della rovina di cui Arnolfo stesso è l’artefice. E’ una farsa scritta come una tragedia, ma la farsa deve conservarsi, perché se non si fa ridere con questo testo, si fallisce.»


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