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SOCIETA'

La tratta delle “nuove schiave” che “battono” i marciapiedi italiani

Tra l’aostano Claudio Magnabosco e la nigeriana Isoke Aikpitany tutto è nato su una panchina di Porta Nuova, a Torino, con le classiche domande “quanto vuoi?” e “dove andiamo?”. Perchè lui era uno dei 10 milioni di italiani che ogni anno “vanno a puttane” con una delle 40 mila “prede” clandestine disponibili ogni giorno sui marciapiedi italiani (anche se Don Benzi sosteneva fossero 100.000). Non tutti i clienti, però, si limitano all’atto sessuale nudo e crudo. Tra quelli che cercano di stabilire un rapporto, le ragazze hanno individuato alcune tipologie ricorrenti. «Ci sono i “papagiri”– spiega Isoke- la cui curiosità ed insistenza nasconde una forma di voyeurismo. E i “clienti pollo”, convinti di poter fare tutto, ma che, poi, si fanno facilmente infinocchiare dalle ragazze. E, infine, “quelli che si arrotolano”, che sono, invece, quelli che si innamorano, non corrisposti, delle ragazze, fino al punto di andare fuori di testa. Tutti questi credono di aiutarle ma, in realtà, fanno danni perché rendono sì loro la vita più facile, ma “quella” vita. E, allora, uscirne diventa ancora più difficile. Se, però, a questi clienti si fa capire che il loro comportamento è dannoso allora possono diventare utili per strapparle allo sfruttamento».

Dai loro sensi di colpa è nato, infatti, il progetto “La ragazza di Benin City” che mira a liberare le schiave del sesso, cercando, anche, di aiutare i clienti a superare il loro disagio con l’apporto di gruppi spontanei di auto-mutuo aiuto. L’esperienza è sfociata nella costituzione, nel dicembre 2006, di “Le ragazze di Benin City”, una associazione informale delle ragazze africane vittime o ex-vittime della tratta, alla quale possono aderire tutte le donne che vogliano fare qualcosa di concreto per risolvere il problema. «Perché– aggiunge Magnabosco- la risposta deve venire dalla gente, non dalle istituzioni o dalla Chiesa. Questi, semmai, devono intervenire dopo. E la risposta consiste in una rete informale che contatti le ragazze, per, poi, affidarle a degli “sponsor” che le aiutino a studiare e ad inserirsi in realtà lavorative. E’ in questo modo che ne abbiamo tolto molte dalla strada».

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