«Cos’è per me un giorno felice? E’ stare in pace senza fare niente: io sto bene in ozio.» A confessarlo, la sera del 3 febbraio scorso, è stata l’attrice Adriana Asti al termine della rappresentazione al Teatro Giacosa di Aosta di “Happy days (Giorni felici)” di Samuel Becket.
Una voglia di riposo accentuata dalla fatica impostale dal regista Bob Wilson che nella commedia la costringe per un’ora e un quarto all’immobilità in una “giungla d’asfalto” che tende a ricoprirla sempre più. «Becket fa spesso assumere agli attori delle posizioni disperate. Nel precedente adattamento di Mario Missiroli ero racchiusa in una piramide di plexiglas mentre alle spalle scorreva, a mò di clessidra, della sabbia. Wilson ha voluto uno spettacolo ancor meno naturalistico per cui alla fine recito solo con la faccia.» Una candida maschera, quella della sua Winnie, che rimanda a quelle di certe attrici del teatro giapponese Nō e la cui mimica è stata dominata dagli “enormi occhi sempre in ascolto” sgranati su una realtà inquietante dove “nessun cambiamento” è già qualcosa. Per essere rassicurata a Winnie basta sentire il marito Willie (uno strisciante e mugugnante Yann de Graval) “a portata d’orecchio”. Anche se lui non ha “nessun interesse per le cose, nessuno slancio per la vita” perchè “è tutto detto, tutto fatto” e la loro
canzone è, non a caso, “Tace il labbro”. La spietata metafora di Becket dell’incapacità di comunicare («prima era una terribile profezia, adesso è una realtà di tutti») ha trovato nella Asti l’interprete ideale per la variegata gamma espressiva al servizio di un’inarrivabile talento nel mantenersi in bilico
tra commedia e tragedia. Qualità che, in fondo, ha caratterizzato tutta la sua carriera, a partire dagli esordi negli anni Cinquanta, quando la sua “meglio gioventù” (per citare una delle sue ultime importanti interpretazioni) era, come lei stessa la definisce, “divina”. «Eravamo tutti amici: Moravia, Pasolini, Elsa Morante, Goffredo Parise, Gadda. Natalia Ginzburg ha addirittura scritto per me “Ti ho sposato per allegria”, che rifletteva la mia filosofia di vita. E, poi, Luchino Visconti con cui ho fatto cinque spettacoli teatrali e che mi ha fatto esordire al cinema in “Rocco e i suoi fratelli” dove facevo la parte di una stiratrice che finiva per baciare Alain Delon.» Con Visconti è iniziata anche una “carriera di nudo” che ha fatto entrare la Asti nell’immaginario erotico di una generazione. «La prima volta che ho recitato nuda è stato in “Old Times” di Harold Pinter diretto da Visconti all’Argentina di Roma. E’ lì che ho scoperto una cosa fantastica: che è bellissimo recitare nudi perché nessuno ti ascolta. Hai libertà assoluta di dire qualsiasi cosa. Memorabili sono stati anche i miei nudi in “Io Caligola” di Tinto Brass e “Il fantasma della libertà” di Luis Buñuel. Quest’ultimo aveva già
mandato via un’attrice, per cui mi sono chiesta: e se, poi, non gli vado bene? Allora l’ho chiamato in camerino e, aperta la pelliccia che indossavo, mi sono fatta vedere come mamma m’ha fatto. E lui a schermirsi: ma no, non sono mica un pornografo!» A dispetto del dichiarato anelito all’ozio, l’immediato futuro della Asti è zeppo di impegni: dalla tournèe di “Giorni Felici” in Brasile e Francia ad un nuovo film con André Téchiné. Il 9 marzo verrà, poi, pubblicato, in Italia il libro “La lettrice dei destini nascosti” che ha già riscosso un buon successo in Francia. Per non parlare dei progetti con l’amica Franca Valeri. «Abbiamo in comune la città di origine, Milano, ed il tipo di umorismo. Al punto che lei ha detto che l’unico matrimonio che le è riuscito è quello artistico con me.» Ci lascia, per tornare in albergo dalla sua cagnolina “Sans-souci”, con una battuta sul “Giacosa”. «Aosta è bellissima, ma dovrebbe avere un teatro meno brutto. Il teatro è il cuore pulsante della città, ma questo mi sa tanto che non pulsa tanto.»

Grandissima Adriana Asti, mi piacerebbe tanto vederla in uno spettacolo dalle mie parti