“Il vero viaggio di scoperta– scriveva Proust- non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.” E’ un po’ quello che, la sera dell’11 aprile, è accaduto agli spettatori, purtroppo pochini, accorsi al Teatro Splendor di Aosta per il concerto in programma nella Saison Culturelle.
I “nuovi occhi” in questo caso erano quelli, bellissimi, della cantantattrice Saba Anglana, nata quarantatre anni fa a Mogadiscio da padre italiano e madre etiope, ma presto costretta dal regime di Siad Barrè a rifugiarsi in Italia.
«Recentemente– ha raccontato- nella mia casa paterna ho ritrovato due occhi di vetro che usava mia nonna quando divenne cieca. Ed è stato come se lei mi dicesse: guarda il mondo coi miei occhi, e, se non lo vedi, inventalo. Un po’ quello che vorrei succedesse ai miei concerti, che, grazie ad un racconto multiforme, trasformo in un viaggio che permette al pubblico, senza bisogno di prendere l’aereo, di essere trasportato in un luogo geografico che è anche spirituale.»
La meta, inutile a dirsi, è stata l’Africa: il suo corno, dove Saba ha vissuto i suoi primi anni, ma, più in generale, il continente nero, come dimostra il suo terzo cd “Life Changanyisha”, del 2012, registrato in Tanzania e Kenia e cantato in swahili, con la partecipazione di musicisti locali, dei Gogol Bordello e dei cori dei Masai. «Il titolo significa “la vita ci mescola” in swahili, la lingua dell’Africa subsahariana che mescola essa stessa più lingue. E’ una lezione che ho imparato cambiando giorno dopo giorno la mia identità come fossi un fiume che attraversa diversi territori. Anche musicalmente nel cd c’è una mescolanza di suoni e stili ottenuta coinvolgendo artisti della scena musicale keniota dai più famosi ai ragazzi che vivono nelle slam, le baraccopoli di Nairobi.»
Mix che ha caratterizzato ancor più il concerto aostano, dove, oltre che in swahili ed italiano, Saba ha cantato in aramaico, somalo, bassa camerunense e poeun senegalese, il tutto reso consequenziale e comprensibile (“non lascio mai lo spettatore perso nella ragnatela di idiomi africani che uso”) da una presenza scenica magnetica, una comunicativa istintiva ed una voce che sa come restituire i suoni del mondo assorbiti come una spugna in questi anni.
Si sono, così, succedute canzoni e monologhi che, partendo da sue esperienze personali («il raccontare storie personali credo che, per immedesimazione, avvicini molto lo spettatore a chi sta sul palco»), parlavano di amore, sogni (“sono il carburante di interi popoli che si muovono”), creatività (“che aiuta a sbloccare le coscienze”), deserti e mari da attraversare in cerca di una vita migliore.
Ad accompagnare Saba sul palco dello Splendor era un gruppo multietnico formato dal senegalese Cheikh Fall (kora e djembé), dal camerunense Taté Nsongan (chitarre) e dagli italiani Martino Roberts (basso) e Fabio Barovero, il leader dei Mau Mau, alla fisarmonica. «Fabio è il motore di tutta la faccenda.- ha commentato Saba- E’ il mio compagno ideale: di vita, d’Arte e di viaggio. Mi piace molto la sua capacità di disegnare, con una forte fisicità, dei piccoli cortometraggi musicali.»
L’attitudine ad andare oltre gli steccati è alla base anche nelle ecclettiche esperienze artistiche dell’artista che in televisione ha interpretato una poliziotta in tre serie de “La squadra”, ha doppiato il film “Totò Sapore”, coltiva la scrittura (nel 2007 un suo racconto è stato pubblicato si Il Manifesto) e, recentemente, ha portato il monologo “Mogadishow” al Teatro Gobetti di Torino. «Ho un approccio ibrido alla vita che mi porta a spaziare e mischiare le cose.– ha concluso– Sono una nomade per vocazione. Mi piace l’idea della migrazione dello spirito che porti in contatto con l’altrove attraverso un percorso in cui non c’è niente di comodo ma molto di stimolante.»