
«Io e Oscar (Valdambrini:n.d.r.) abbiamo iniziato il jazz moderno in Italia». Gianni Basso me l’aveva detto, con orgoglio, alla fine degli anni Novanta. All’epoca il sassofonista astigiano veniva spesso in Valle d’Aosta, collaborando con l’entusiasmo di un ragazzino con musicisti locali come Cisco Solenne, Donatella Chiabrera e Francesco Tripodi, nel primo Cd del quale aveva fatto degli assoli («Tripodi ha molte carte da giocare.- aveva detto-Io gli ho dato una mano, per avere successo ha però bisogno di molte spinte e di andare ai Festival»). Lo guardavamo tutti con il rispetto che meritava un maestro del sassofono, che, negli anni, aveva goduto della stima e dell’amicizia di giganti del jazz come Jerry Mulligan, Lee Konitz, Johnny Griffith e, soprattutto, Chet Baker. «Chet era un artista.- mi aveva detto- Aveva tutte le qualità degli altri musicisti ed in più il fascino di una maniera unica di suonare e di cantare. Mi raccontava che aveva iniziato suonando il trombone, ma gli piaceva soprattutto cantare. Così, quando, da militare, gli hanno dato una tromba lui si è messo a cantarci dentro.» Un po’ quello che aveva cominciato a fare lui, col sax tenore, quando a metà degli anni Quaranta, si era distinto nella Big Band di Raoul Falsan, in Belgio, dove il padre era emigrato per lavoro. Forte di quell’ imprinting, nei primi anni Cinquanta aveva dato vita, con il trombettista Oscar Valdambrini, ad un quintetto che aveva fatto da battistrada al jazz italiano accreditandolo a livello mondiale. Per vivere doveva, però, suonare nell’orchestra della RAI, di cui non conservava un buon ricordo. «In quel periodo– raccontava con quel fare schietto e genuino che lo contraddistingueva- in orchestra, a Milano, c’era gente come Sergio Fanni, Rudy Migliardi e Glauco Masetti, se i vari Kramer e compagnia bella avessero perorato la causa della buona musica probabilmente avremmo fatto grandi passi avanti. Invece questi maestri appena arrivavano in TV cominciavano a fare le cose più commerciali per fare soldi, e, quindi, invece di suonare “My funny Valentine” suonavano “In un vecchio palco della Scala”.»


Una situazione che si era, poi, ulteriormente deteriorata. «Purtroppo c’è una grande crisi che investe tutta la musica che non sia quella di consumo. Questo vale soprattutto per il jazz che la gente vede come una musica particolare, per cui bisognerebbe che in televisione si proponesse e se ne parlasse, e invece… Che, poi, cosa c’è di più bello e “commerciale” del jazz? Soprattutto il mainstream, che io chiamo il “centrocampo” del jazz perchè sta tra dixieland ed avanguardia. Quello di Armstrong, Ellington, Count Basie, Chet Baker, Parker e Mulligan. Quello che io suono è la summa di tutto questo: una musica con belle melodie, armonie raffinate e,soprattutto, swing.» Gianni Basso è morto all’ospedale di Asti il 17 agosto scorso. Particolarmente toccanti sono stati i funerali, tenutisi il 20 agosto presso la Collegiata di San Secondo alla presenza di una grande folla e con la “Torino Big Band Jazz Orchestra”, ensemble fondato da Basso, a sottolinearne i momenti principali. La dirigeva Fulvio Albano, allievo di Basso, che ha avuto il delicato compito di aprirli facendo cantare ancora una volta il sassofono del Maestro in una straziante “Body and Soul”.
peccato era un grande artista