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FOTOGRAFIA

GIANNI BERENGO GARDIN: l’occhio come mestiere

«Anche se non lo posso considerare un amico, Cartier-Bresson l’ho conosciuto e frequentato parecchio. Un giorno, ad Arles, volle regalarmi un suo libro sui messicani che mi dedicò scrivendo: a Gianni con stima ed ammirazione. E’ stato il più grande premio della mia vita.»

A raccontarlo è stato l’ottantunenne Gianni Berengo Gardin, uno tra i più noti fotografi italiani che il 21 luglio è stato uno dei commentatori della visita guidata dell’esposizione «Henri Cartier-Bresson. Collection Sam, Lilette et Sébastien Szafran», allestita nel centro espositivo di Etroubles, in collaborazione con la Fondation Pierre Gianadda di Martigny.

E’ seguita una tavola rotonda, in piazza Chanoux, sul tema «La fotografia incontra l’arte», alla quale Berengo Gardin ha partecipato con altri fotografi, tra i quali il valdostano Stefano Torrione.

Di cose da raccontare ne ha, del resto, parecchie dopo quasi sessant’anni di carriera condotta ai massimi livelli in vari campi: dal fotoreportage alla fotografia industriale, dalla descrizione ambientale alla documentazione di architetture (ha a lungo collaborato con Renzo Piano). Lo testimoniano anche gli innumerevoli premi ricevuti, le mostre fatte (dal Museum of Modern Art di New York alla Biblioteca Nazionale di Parigi), i libri fotografici pubblicati (più di 200).

Il titolo di uno dei primi libri, “L’occhio come mestiere”, sintetizza al meglio la filosofia che lo ha sempre guidato. «Una bella fotografia è quella dove succede qualcosa.– spiega- È come giocare a poker ed avere quattro belle carte, ma vinci solo se “entra” la quinta e fai scala reale. Allo stesso modo perché si abbia una fotografia c’è bisogno di quello che Roland Barthes chiamava “punctum”, cioè un dettaglio particolare che, coinvolgendolo emotivamente, colpisca lo spettatore

Per farlo Berengo Gardin è sempre ricorso al bianco e nero. «Per il tipo di fotografia che faccio ritengo sia molto più efficace, visto che il colore distrae sempre dal soggetto e dal racconto che si vuole fare. Perché una foto deve raccontare qualcosa agli altri, non essere qualcosa in cui specchiare la propria vanità. Questa visione sociale della fotografia mi viene dal fatto che da giovane ero comunista e dalla fortuna che un mio zio che stava negli Stati Uniti era molto amico del grande Cornell Capa, che tra i libri giusti da mandarmi gli consigliò quello della “Farm Security Administration”, l’associazione di fotografi voluta da Roosvelt per documentare le condizioni dei contadini.»

Hanno, infatti, fatto epoca i suoi reportage sulla condizione dei manicomi nel 1968 e quello su come viveva la comunità di zingari a Firenze negli anni Settanta. Un “vizietto” che gli è rimasto, visto che tra i suoi ultimi reportage ci sono quelli sul terremoto abruzzese ed emiliano. «Nel libro appena pubblicato da “Contrasto”, “L’Aquila prima e dopo”, ho messo in relazione le foto che vi avevo fatto nel 1995 con quelle di adesso. E’ impressionante il silenzio di morte che c’è per le strade. Non passa nessuno, non c’è nessuno e in tre anni non è stato fatto assolutamente niente per ricostruirla

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