C’erano le sorelle Sal e Jane Talini venute da Saint Louis, Missouri, che- dopo aver rallegrato all’entrata la coda con tanto di chitarra ed armonica- si precipitarono di corsa sotto il palco. E c’era un ragazzotto valdostano che seguì, invece, il concerto dalla bouvette predisposta dalla Pro Loco di Chatillon. «Chi sono questi che suonano?», chiese, sorseggiando birra. «Bob Dylan», gli risposero. «E chi è? Un
gruppo locale?».
Furono i due estremi della varia umanità (4.500 spettatori di 18 nazioni, età media 40 anni) che la sera di mercoledì 18 giugno 2008 accorse nel Parco del Castello del Baron Gamba di Chatillon per assistere al concerto di uno dei miti musicali del XX secolo: Bob Dylan. Mito fa rima con rito, ed è per sfuggire sia a l’uno che all’altro che Dylan si è imbarcato nel “Never Ending Tour” che da vent’anni lo vede impegnato ogni anno in centinaia di concerti che, con piccole variazioni, ripetono lo stesso canovaccio. Una ripetizione che, come teorizzava Warhol, tende a consumare l’arte, e, quindi, il mito, come un qualsiasi altro prodotto commerciale.
Fu così anche a Chatillon. Con qualche estro e canzone in meno, con qualche tristezza in più (“Tangled up in blue-Aggrovigliato nella tristezza” fu una delle interpretazioni più partecipate), ma con la stessa sovrana indifferenza verso il pubblico (“Sai che ti dico, non me ne frega niente dei tuoi sogni …Ho già confessato, non c’è bisogno che confessi ancora” da “Thunder On The Mountain”). Defilato anche sul palco, a strimpellare una tastiera e cantare, con quella sua voce ancestrale, diciassette pezzi. Nonostante tutto qualche emozione gli scappò comunque: una fragrante “Boots of Spanish leather” d’annata o una “Nettie Moore” dei tempi moderni. Per non parlare delle finali “All along the watchtower” e “Like a rolling stone”. Al termine, come al solito, lasciò il pubblico spaccato tra sperticate lodi e una “hard rain” di critiche. Sarà stato un caso, ma proprio il 18 giugno di un secolo prima c’era stata la prima della pirandelliana “Cosi è (se vi pare)”.
Ascoltando Dylan sono cresciuti tutta una serie di protagonisti della cultura italiana attuale. Tra questi lo scrittore milanese Andrea De Carlo che assistì al concerto di Chatillon con Laura Glarey, assessore alla Cultura di Saint-Pierre, paese dove De Carlo aveva preso parte alla rassegna “Castelli di Cultura”. «Sono legato a Dylan da sempre– mi confessò in quell’occasione De Carlo- Sono stato folgorato dall’ascolto dei suoi primissimi dischi, e da allora l’ho sempre seguito. Molti hanno detto che è un poeta in musica, in realtà ha riportato la poesia alle sue origini
quando era sempre accompagnata da musica. Anche musicalmente è fantastico. Nel suo periodo aureo, che secondo me è stato tra “Highway 61” e “Blonde on Blonde”, la sua musica conteneva di tutto: dal blues al vaudeville, dal country alla musica da circo. E ancora adesso vi si sentono gli echi della ricchissima tradizione americana». Qual’è il tuo rapporto con la musica? «C’è molta musica nella mia scrittura, per i ritmi ed i suoni che sono già nelle parole. E’, poi, c’è musica nelle storie. Il protagonista dell’ultimo libro, ”Durante”, è, per esempio, un tessitore che mentre lavora al telaio ascolta continuamente musica: da Jimi Hendrix alla musica tibetana. E, a seconda della musica che ascolta, fa stoffe con tessiture diverse». Chissà che trame verrebbero fuori dall’ascolto dei vari periodi che Dylan ha avuto nel suo quasi mezzo secolo di attività musicale? «L’ho sentito quasi venti anni a Reggio Emilia, ma era stato molto deludente. A Chatillon, invece, c’era di nuovo. Ha, tra l’altro, ripreso voce che, anche se rimane molto vissuta e sofferta, non ha più lo stridore metallico che aveva. Poi per me Dylan è un pò come la Sfinge d’Egitto o la Sibilla o Nostradamus per cui nelle sue reinterpretazioni deve rimanere un po’ indecifrabile. In ogni caso è sempre fantastico».