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SAGGIO SULL’ARTE DI STRISCIARE

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E’ stato scritto “ad uso dei Cortigiani”, ma il “Saggio sull’arte di strisciare” è molto più utile per chi “cortigiano” non è. I primi, infatti, non hanno sicuramente niente da imparare, mentre i secondi vi possono trovare l’ironica descrizione di moltissimi conoscenti dalla quale trarre motivi di amara riflessione sull’immutabilità dei meccanismi che regolano la commedia umana.

Nascosto in vita tra le sue “facezie filosofiche”, il “Saggio sull’arte di strisciare” è stato pubblicato dopo la morte (avvenuta nel 1789) dell’autore, il barone Paul Heinrich Dietrich Holbach, un filosofo tedesco naturalizzato francese che è stato una figura di spicco dell’Illuminismo radicale europeo. Considerazione acquistata anche questa postuma, visto che, per eludere la spietata repressione della libertà di stampa imposta in Francia dal patto di ferro tra  monarchia e clero, le sue opere furono in gran parte anonime e clandestine. Non a caso, nell’ottobre del 1768,  il ritrovamento di due copie del suo “Cristianesimo svelato” costò a un garzone di spezieria la tortura e nove anni di carcere, mentre cinque anni di galera toccarono al venditore clandestino e il manicomio a vita alla di lui moglie, ritenuta complice.

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Covato in segreto, lo «sdegno che provava nello studiare la storia umana troppo piena di dolori e misfatti, di atrocità dell’uomo e della natura» portò Holbach ad elaborare la convinzione che assolutismo politico e oppressione clericale, anche se talora in apparente conflitto tra loro, sono sostanzialmente solidali e debbono, quindi, essere combattuti insieme. «Senza la Corte– scriveva in “Teologia portatile”- la Chiesa quasi non può prosperare, lo Spirito Santo vola con un’ala sola. È a Corte che in ultima istanza si decide l’ortodossia. Gli eretici sono sempre coloro che non pensano come alla Corte. Le divinità di quaggiù regolano comunemente la sorte delle divinità di lassù. Senza Costantino Gesù Cristo sulla terra avrebbe fatto una assai magra figura».

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E’ in questa Corte (che,  in varie forme, si riproduce anche ai giorni e alle latitudini nostre)  che prospera la “vil razza dannata” dei Cortigiani, uomini con “diverse anime” che in cambio di benevolenza “ripagano il Monarca con la condiscendenza, l’assiduità, l’adulazione, la vigliaccheria”, immolando “in suo nome onore, onestà, amor proprio, pudore e rimorsi”. “Un buon cortigiano non deve mai avere un’opinione personale ma solamente quella del padrone…Un buon cortigiano non deve mai avere ragione, non è in nessun caso autorizzato ad essere più brillante del suo padrone…deve tenere ben presente che l’uomo che sta al comando non ha mai torto…La capacità di dissimulazione è poi la caratteristica principale del vero cortigiano! E’ necessario che egli sappia costantemente neutralizzare i rivali con atteggiamenti amichevoli, mostrare un viso disponibile, affettuoso a coloro che più detesta, abbracciare teneramente il nemico che vorrebbe strozzare; infine bisogna che anche le bugie più spudorate siano imperscrutabili sul suo volto”. Guai, quindi, ai “mortali affetti da una rigidità di spirito, un difetto di elasticità nei lombi, una mancanza di flessibilità nella cervicale; quest’infelice funzionamento impedisce loro di perfezionarsi nell’arte di strisciare e li rende incapaci di fare carriera a Corte…La Corte non è per niente adatta a quei personaggi alteri, tutti d’un pezzo, incapaci di cedere a capricci, di assecondare fantasmi e nemmeno, se necessario, approvare o favorire crimini che il potere giudica necessari al benessere dello Stato.”

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