La vera unità dell’Italia fu festeggiata il 5 luglio 1982. Grazie ad un nano che ballava (Bruno Conti), a un portiere con l’artrite (Dino Zoff), al bellissimo Antonio Cabrini e, soprattutto, a un morto che parlava (Paolo Rossi). Furono loro gli artefici del’insperata vittoria, ai Campionati del mondo di Spagna, dell’Italia sul Brasile dei “marziani” Zico, Falcão e Socrates che scatenò l’entusiasmo in tutta Italia, entrando nell’immaginario collettivo di una generazione. Lí è andato a scavare l’attore palermitano Davide Enia per scrivere il monologo “Italia – Brasile 3 a 2”, messo in scena lo scorso 8 aprile al Teatro “Giacosa” di Aosta con il chitarrista Giulio Barocchieri e il percussionista Fabio Finocchio. Dalla viscerale passione di un’”ala sinistra anarchica“ (che dovette abbandonare i sogni di gloria per una lesione ai legamenti del ginocchio) è nato un monologo dove il calcio è epica umana, racconto popolare, memoria collettiva unificante e identificante. «Prima il calcio a teatro in Italia non esisteva.- ha spiegato l’attore prima dello spettacolo- Io ho preso la trama della partita, che, con l’alternanza del risultato, è una
drammaturgia lisergica che solo un pazzo poteva scrivere, per intercettare, col racconto delle reazioni della mia famiglia, una sorta di bestiario dei comportamenti umani in cui è facile riconoscere sé stessi o chi c’è prossimo. In certi momenti mi rifaccio al “cunto” dei cantastorie siciliani che interpreto in maniera animalesca, adattandolo alla mia personale metrica di respiro e di costruzione della frase. Mimmo Cuticchio il fiato lo spezza, mentre per me un fiato corrisponde ad un’unità descrittiva. Chi l’ha conosciuto, mi dice che mi rifaccio più a Roberto Genovese, che di Cuticchio è stato il maestro. Il “cunto” è una cosa scritta nella mia carne, su cui, poi, ho fatto un grande lavoro di falegnameria per smussare gli angoli e levigare.» Come in un gioco di scatole cinesi, dal racconto della partita scaturiscono altri racconti, come quello di Garrincha, l’ala brasiliana che la poliomielite rese capace di magie inaudite con il pallone. O della Dinamo Kiev, squadra invincibile degli anni quaranta, sterminata per aver osato, durante l’invasione nazista, battere una squadra tedesca in un partita organizzata nello stadio di Kiev. Sono stati questi i punti a più alta intensità emotiva di uno spettacolo che, per il resto, ha fatto molto ridere e coinvolto il solitamente compassato pubblico aostano. «L’arte è matematica del sentimento- ha concluso Enia- per cui noi attori facciamo una costruzione tecnicamente tesa a smuovere emozioni. La mia è una scrittura molto fisica che cerca di creare una verità emotiva incontrovertibile che si esprime, poi, fisicamente. Perché il corpo non mente: se ridi ridi, se piangi piangi.» Quanto c’è nei tuoi lavori della tua Palermo? «L’essere umano è fatto di carne e geografia, e la mia geografia è Palermo. Li’ ho spazialmente formato le mie ossessioni. Anche il tipo di linguaggio con cui battezzo il mondo ha la sua origine nel dialetto siciliano, e, quindi, nell’epicizzazione di ogni cosa che lo caratterizza. Ad esempio, quando mia nonna aveva il mal di testa non diceva “mi fa male la testa”, ma, piuttosto, “stai muriennuuu”.»