«Giornalista e sceneggiatore, autore anche di un romanzo. Scrittore minore satirico nell’Italia del Benessere». Così si riassunse Ennio Flaiano (Pescara 5 marzo 1910-Roma 20 novembre 1972) per un’immaginaria enciclopedia del 2050. In realtà, per definirlo, basterebbe una sola parola: GENIO. Lo conferma, per contrasto, il fatto che, a mezzo secolo dalla morte, non abbia la giusta considerazione. Come aveva, infatti, previsto ed un po’ esorcizzato in un famoso aforisma: «il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso.»
Acuto osservatore, ha descritto come pochi il carattere degli Italiani. Nei romanzi, nelle sceneggiature dei film (da “La dolce vita a “81/2”, da “La notte” a “Signore e signori”), ma, soprattutto, nei fulminanti aforismi in cui i suoi connazionali “tengono famiglia”, “corrono sempre in aiuto del vincitore”, “hanno quasi tutti il coraggio delle opinioni altrui” e si ostinano a credere che “la linea più breve tra due punti è l’arabesco.” Non a caso “la situazione politica in Italia è grave ma non è seria.” Anche quella culturale, perché ”il pubblico vuole soltanto un po’ di spogliarello, ma quel che conta è ciò che riusciamo a fare alle sue spalle, senza che se ne accorga.”
Un intellettuale irrimediabilmente condannato a “La solitudine del satiro”, il titolo di un’opera postuma in cui è contenuta “La satira, la noia e la fede”, un’interessante intervista radiofonica rilasciata a Giulio Villa Santa, di RSI, poche settimane prima che un infarto lo uccidesse, da cui sono tratte queste riflessioni.
«La satira in Italia non è molto coltivata per dei motivi che possono trovarsi nell’Estetica di Croce, che considera la Satira come la Cenerentola della Letteratura. Qui regna il culto dell’Arte e della Poesia in senso assoluto, ognuno, scrivendo, ha per modelli “La Divina Commedia”, “I Promessi Sposi” o “I Malavoglia” e nessuno si guarda attorno per capire i lati assurdi, non diciamo ridicoli, ma, comunque, sfrenati della vita che ci circonda. Farlo è mettersi in una posizione di isolamento, cosa che a me non dispiace… Per scrivere satiricamente bisogna conoscere noi stessi, che cosa siamo, cosa vogliamo e, forse, da dove veniamo…
Le mie preferenze vanno alla solitudine, allo scrivere e, se vogliamo, alla noia… Io credo alla solitudine, temo l’ignoto e sono terrorizzato dalla morte…La mia ironia va considerata terapeutica perché mi libera da tutto quanto mi da fastidio, mi opprime, mi offende e mi mette a disagio nella società… Lo scrivere per me è un bisogno organico. Sono un uomo tendenzialmente pigro, per cui lo eliminerei dalla mia vita se non fosse un modo per sopravvivere.
Lo scrittore satirico non deve conoscere le regole del gioco, ma, piuttosto, affidarsi alle possibilità che gli si offrono, che sono fuori del gioco e delle regole. Deve colpire coi mezzi che può. La scrittura satirica non è uno sport, cioè non richiede eleganza e rispetto delle leggi ma, piuttosto, la forza di una sopraffazione, e, quindi, tutti i mezzi sono buoni. Se io per farla mi servo del capovolgimento dell’idea altrui è perché molte volte mi viene offerta da chi queste idee pratica. Oggi viviamo in un mare di idee, infatti, come ho scritto, ogni cretino è pieno di idee…
Il prossimo è una gran baracca, come direbbe un romano, Cioè è qualche cosa che non si riesce mai ad afferrare. A questa conclusione si arriva dopo molti anni stando a Roma, vedendo la strafottenza con cui il romano accetta e domina la vita. Questo porta a considerare che le idee hanno un valore relativo, e il clima, questo continuo mutare della metereologia, queste stagioni che non coincidono mai, questo modo di vivere in una ribalta estremamente illuminata e fragorosa, attutiscono il senso delle idee, e ne danno uno più vago, se vogliamo anche più profondo, dell’attimo fuggente, che bisogna afferrare perché se non è bello perlomeno è utile.
bello Gaetano, grazie per questo articolo
Grazie a te, grande e bellissima artista