Per decifrare l’odierna follia del mondo ci vogliono folli o comici. Che, poi, sono la stessa cosa quando i comici sono della nobile stirpe di quegli antichi giullari che, si racconta, furono creati da Dio con il suo ultimo miracolo. Proprio da questo episodio prende le mosse il “Mistero Buffo” di Dario Fo, l’opera teatrale che nel 1969 valorizzò la cultura popolare come chiave di lettura di una Storia troppo spesso mistificata dalla cultura ufficiale. Esaltando l’arte dei giullari, che, con la loro ironia, riuscivano a “tirare fuori” dal pubblico non solo
sorrisi, ma anche, almeno i più bravi, consapevolezza. Un po’ quello che ha fatto Paolo Rossi, loro diretto discendente, nella sua “umile versione pop” di “Mistero Buffo” rappresentata il 26 e 27 ottobre al “Giacosa” di Aosta con il chitarrista Emanuele Dell’Aquila e Lucia Vasini. «Non sono uno scemo qualsiasi.-ha rivendicato- Sono un cretino professionista, sono un comico.» Perfetto, quindi, nel rendere il lato buffo dell’opera, meno, forse, il mistero di tutto ciò che nella versione di Fo stava intorno alla parola. Anche perchè i tempi in cui vive più che tragici si sono fatti ridicoli, portando, nella sua versione attualizzata, alla scomparsa dell’illusione che nel tessuto sociale ci siano sani anticorpi che lo portino a reagire. Perché ormai, mentre “il povero fatta la legge deve trovare l’inganno, il ricco fatto l’inganno trova la legge”. «Come è successo nel 1969- ha spiegato Rossi-anche il mio “Mistero Buffo” è un’operazione politica: la nostra è ancora un’epoca in cui difendere dei valori significa difendere la sopravvivenza.
Ma è anche un’operazione culturale perché vuole recuperare, insieme al pubblico, le radici profonde del teatro popolare. Abbiamo capito che il teatro, unico animale vivo, non cambierà il mondo ma può cambiare noi e aiutarci a resistere.»