
Passano gli anni, ma Joan Baez fa sempre notizia. Ieri perché ha festeggiato il settantesimo compleanno (è nata a New York il 9 gennaio 1941), ma fu così anche il 22 luglio 2004, quando il suo arrivo in Valle d’Aosta mobilitò le maggiori testate italiane per la conferenza stampa di presentazione del suo tour italiano.
L’evento, inserito nella rassegna “Aosta Classica”, visse, così, due momenti: uno, privato, in cui ad uscire fuori fu la Baez politicamente impegnata, ed uno pubblico, il concerto, in cui, in un affollatissimo Palais Saint-Vincent, fece, finalmente, musica. Grande, naturalmente.
ATTO PRIMO. Più che una conferenza stampa sembrò di assistere ad una tribuna politica. Imputato principale: il governo di George Bush. «Mi scuso per il comportamento disgustoso del governo americano– esordì la Baez- Sono seriamente preoccupata. In Europa ci sono varie posizioni, ma io rimango scioccata quando vedo che qualche paese si schiera con l’America». E l’opinione pubblica americana cosa dice? «Sta cambiando, soprattutto dopo “Farenheit 9/11, il coraggioso documentario di Michael Moore contro l’amministrazione Bush che ha vinto la Palma d’oro a Cannes. Pensiamo di fare qualcosa insieme. Mi ha ricordato che quando studiava all’Università, sono andata lì a fare un mio concerto, e, alla fine, abbiamo parlato a lungo delle loro lotte. Così, poi, gli ho spedito un assegno di 300 dollari per aiutarli. La sua attività politica è cominciata così.» La musica ha ancora il potere di muovere le coscienze?«Tra tutte le arti è quella che riesce maggiormente a cambiare il cuore e la mente delle persone. Non basta, però, andare ad un concerto o partecipare ad una manifestazione, bisogna rendersi conto che per ottenere qualcosa bisogna prendersi dei rischi. Il concerto Live Aid di Bob Geldolf è stato talmente innocuo che, alla fine, l’unico rischio era quello di non essere invitato.» Con la saggezza della maturità come vede il suo rapporto con Dylan? «Altro che saggezza: dovevate vedermi oggi mentre risalivo la Dora saltando sui sassi. Non c’era niente di saggio in me.»
ATTO SECONDO. Il Dylan accuratamente glissato in conferenza stampa venne fuori in concerto: prima con “Farewell Angelina”, e, poi, con “It’s all over now, baby blue”. Furono, proprio, questi ed altri suoi classici (“Joe Hill”, “Sweet Sir Galahad”, “Diamonds & rust”, “Here’s to you”, ma, anche, le morandiane “Un mondo d’amore” e “C’era un ragazzo”), eseguiti in gran parte con la sola chitarra acustica, a regalare le maggiori emozioni. Poco spazio, invece, per il ben collaudato gruppo con cui eseguì, soprattutto, le canzoni di “Dark Chords on a Big Guitar”, il suo ultimo Cd dedicato alle canzoni di alcuni giovani autori americani. Tra questi “Wings” del bravissimo Josh Ritter che aprì il concerto. Gran finale con la classica “Gracias a la vida”, cantata guardando la sua amica valdostana Maura Susanna seduta in prima fila. «Maura è una brava cantante– mi aveva detto nel pomeriggio- Ieri ho pranzato nel suo ristorante ed ho ripassato con lei i testi delle canzoni in italiano.»
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