La sesta Festa della Valle d’Aosta è culminata la sera del 7 settembre con il concerto, ad Aosta, dei Nomadi e di Roberto Vecchioni. In una gremitissima Piazza Chanoux si sono, così, ritrovati sullo stesso palco due artisti le cui strade, nelle più che quarantennali carriere, si sono spesso incrociate. Una volta, nel 2006, addirittura sul palco del Festival di Sanremo, dove Vecchioni duettò col gruppo emiliano in “Dove si va”.
«Il rapporto umano coi Nomadi risale a molti anni fa.- ha spiegato, prima del concerto, il sessantottenne cantautore lombardo– Abbiamo a lungo parlato di politica e vita, costruendo, con Guccini e Lolli, un concetto di canzone italiana che, andando oltre la normalità e il potere, fosse diverso da quello preesistente.»
Sul palco di Sanremo Vecchioni è tornato in gara quest’anno, centrando una clamorosa vittoria con “Chiamami ancora amore”, un grido di speranza perché finisca la “maledetta notte nera” voluta dai “signori del dolore”. «L’ho composta partendo dalla frase “add’a passà a nuttata” di Eduardo De Filippo.– ha confessato- La speranza è un rimedio alla disperazione, anche se, a volte, la disperazione va oltre la speranza. Però, alla fine, a vincere deve essere quest’ultima.» Speranza che Vecchioni ha incarnato soprattutto nei giovani, quei “piccoli comici spaventati guerrieri”, come recita il
titolo di una sua canzone, che continuano ad avere “un piccolo fiore dentro che c’è da chiedersi com’è nato”. «Li calpestano tutti. – ha continuato- Ed è stato anche per vendicare questa canzone, mai conosciuta nè capita, che sono andato a Sanremo. In modo da riportare l’attenzione della gente, e in particolare dei giovani, su tanti pensieri e canzoni passati inosservati. Ero stufo che la banalità trionfasse nonostante i miei sforzi di uscire da mediocrità e falsità. Come estremo tentativo ho deciso di prendere in mano il mio destino, come avevo fatto quando avevo avuto seri problemi di salute.»
C’è riuscito con la forza di una interpretazione che ha esaltato la sua capacità di aprirsi senza pudori sul palco, perché, come canta in una celebre canzone, «quello che conta è non aver mai paura di essere ridicoli». «Quando canto canzoni che mi prendono fortemente non riesco mai ad essere meditativo e razionale e lascio trasparire tutti i sentimenti. Non mi preoccupo assolutamente di eventuali critiche, perché è così che si devono cantare le mie canzoni.»
Lo ha dimostrato anche ad Aosta con un concerto ad alto potenziale emotivo, condotto “tra rabbia e stelle” con l’ottima band composta da Lucio Fabbri (chitarre, violino e mandolino), Massimo Germini (chitarre), Eros Cristiani (pianoforte e fisarmonica), Stefano Cisotto (tastiere), Antonio Petruzzelli (basso) e Roberto Gualdi (batteria). «Conosco bene la Valle– ha confessato- ho vissuto a lungo e avuto casa a Saint-Vincent perché mio padre aveva una passione esagerata per il gioco. “L’uomo che si gioca il cielo a dadi” è dedicata a lui e a Saint Vincent.» Ad un aostano è dedicata anche “Tommy”, una canzone del 1991. «Era un mio amico– ha ricordato-e il giorno che decise di tirare “una corda al cielo, per,poi, metterla al collo” mi telefonò. Io mi precipitai ad Aosta per cercare di fermarlo, ma c’era tanta neve ed arrivai troppo tardi.»