Le strade del jazz, come quella della vita, sono infinite. La sera del ferragosto 2006 portarono, per esempio, ad Aosta il contrabbassista francese Henri Texier (Parigi 27 gennaio 1945). Un personaggio di spicco nel panorama jazz mondiale, con alle spalle esperienze prestigiose con jazz giants come Bud Powell, Chet Baker e Don Cherry e spericolate avventure con un supergruppo come il “Transatlantik Quartet“, formato negli anni Ottanta con Joe Lovano, Steve Swallow ed Aldo Romano.
Al Teatro Romano Texier si esibì col suo (guarda un po’ il caso) Strada sextet , nell’ambito della rassegna “Prospettive” organizzata da “Strade del Cinema” (sic).
«Il nome del sestetto è un omaggio ai jazzisti che sono sempre “on the road”.– ci disse, ammirando le rovine romane- E, poi, non è stando a casa ma uscendo nelle strade che succedono le cose: ogni volta che si imbocca una nuova strada si apre un orizzonte. Cerco di fare musica viva che allontani, almeno per qualche ora, la morte, la cattiveria e la stupidità che ci sono in questo mondo terribile in cui viviamo. E, magari, faccia venire la voglia di condividerla con altri.»
Cosa ricorda delle esperienze nei primi anni Sessanta nei grandi club parigini? «Quando avevo venti anni Daniel Humair mi portò al “Blue note” di Parigi per rimpiazzare il contrabbassista del locale. Ho, così, avuto la fortuna di suonare con i miei idoli americani: da Bud Powell a Dexter Gordon. Per me è stato uno shock emozionale fortissimo, ma mi ha anche dato molta fiducia nei miei mezzi. Loro, d’altra parte, erano contenti perché dicevano che avevo molta energia. Adesso che sono io il veterano cerco di restituire ai giovani con cui suono quello che questi grandi mi hanno dato.»
Ha appena pubblicato “African Flashback” a conferma delle contaminazioni etniche che da molti anni caratterizzano il suo jazz, quali strade ha imboccato?
«Il jazz- rispose– è una musica che ha ormai una storia lunga, e, quindi, sono sempre di più i suoi strati che si è obbligati di conoscere. Se, infatti, si sceglie solo un’epoca o uno stile si finisce per essere limitati e diventare un musicista da museo. Io ho avuto la fortuna di avere attraversato quasi tutti questi strati: ho cominciato a suonare nello stile New Orleans e poi, appena ventenne, ho collaborato coi grandi beboppers, e, nello stesso tempo, sperimentato il free jazz. Fin dall’inizio sono, quindi, stato un musicista meticcio. E sono arrivato alla conclusione che, una volta sperimentati, i vari stili bisogna usarli in contemporanea, così si ha più colore sulla tavolozza per poter scegliere le direzioni e le atmosfere, e la musica che viene fuori è molto più viva. E’ da quando ho 20 anni che cerco di raggiungere un equilibrio tra musica melodica e ritmica, musica molto organizzata e liberamente fluttuante, musica figurativa e non. E in base all’obiettivo scelgo i miei musicisti.»