Il 27 maggio 1950 è nata a Memphis la cantante Dee Dee Bridgewater, le faccio gli auguri riproponendo un‘intervista che le avevo fatta il 27 marzo 2004.
«Sofà is better», dice. E, intanto, si stiracchia mollemente su un divano che troneggia nel raffinato salottino ricostruito la sera del 27 marzo sul palco del Palais Saint-Vincent. Lei è, Denise Garrett, in arte Dee Dee Bridgewater, una che ha sempre avuto la vocazione della globetrotter, ma che, dopo trentacinque anni di tournèe, qualche mollezza può, pure, concedersela. Eccola, allora, ricevere il migliaio di ospiti affluiti al Palais per il concerto inserito nella “Saison” con mazzi di fiori, drappi, luci soffuse ed un paio di amici musicisti (Ira Coleman al contrabbasso ed Edsel Gomez al pianoforte) di quelli che sanno stare al loro posto creando atmosfere rilassanti.
A ravvivare la serata ci ha pensato lei, fasciata da un abito nero di Armani, che, da perfetta padrona di casa, ha fatto le presentazioni, scherzato, ammiccato, dialogato col pubblico e offerto, con classe, prelibatezze musicali per palati fini e non. Il suo patinato repertorio sa, infatti, come mediare le aspettative dei jazzofili più esigenti coi gusti del grande pubblico. Tanto per cominciare attinge a profusione da “new standards”, canzoni, come, per esempio, “La belle vie” di Sacha Distel “o “The Tokio Blues”, cavallo di battaglia di Horace Silver, che alle orecchie dei giovani risultano più familiari rispetto a classici strabattuti. «Personalmente– ci aveva spiegato prima dello spettacolo- sono stanca dei vecchi standards di Gershwin, Cole Porter o Ellington. Mi piace rinnovarmi, anche per attirare le generazioni più giovani. Tutte le canzoni possono essere interpretate in maniera jazz, ed io, in particolare, amo quelle che sanno raccontare storie che mi permettono di sfruttare la mia teatralità». E’ quello che, per esempio, è avvenuto per le canzoni di Kurt Weill inserite in “This is new”, la sua più recente avventura discografica, che hanno fatto da filo conduttore del concerto (da “September song” a “My ship”, da “Youkali” a “Speak low”). Non sono, però, mancati vecchi standards come “Basin Street Blues” (con gustosa imitazione di Louis Armstrong), “Cherokee” e “My favourite things”. «Saranno pure vecchi ma sono nuovi per me», tiene a precisare. Perché, secondo lei, la scena jazzistica è caratterizzata da molte donne cantanti ma da poche strumentiste? «Per una donna ottenere considerazione è difficile in qualsiasi ambiente, ma in quello jazzistico lo è ancora di più perché è molto critico. Tra l’altro suonare è fisicamente molto pesante. Credo che il cantare, specialmente jazz, sia invece naturalmente associato alla femminilità. Cantare è bello: consente di vestirsi bene, di stare sotto i riflettori e davanti al gruppo». Quando improvvisa si ispira a qualche strumentista in particolare? «Preferisco i trombettisti, probabilmente perché lo erano mio padre ed il mio primo marito. Miles (Davis), Dizzy (Gillespie) e Clark Terry sono stati molto importanti per me». Come si definirebbe? «Impulsiva, istintiva e generosa».
Il video di “The angel of the night“, la versione inglese di “Uomini soli” dei Pooh, con cui Dee Dee Bridgewater vinse il Festival di Sanremo 1990