Nel corso di questo 2009 il nono centenario della morte di Sant’Anselmo d’Aosta ha scatenato in Valle un tourbillon di convegni, libri, cerimonie e spettacoli. Tra le iniziative più riuscite si può, sicuramente, annoverare il concerto, ideato da Riccardo Piaggio e tenutosi nella Cattedrale di Aosta lo scorso 7 novembre, in cui le parole di questo Doctor magnificus della Chiesa (recitate dagli attori valdostani Donatella Cinà e Pierre Lucat) sono state vivificate dalla musica del grande musicista siciliano Giovanni Sollima. La suite che ne è nata -“Credo! L’albero del monaco. I sandali del filosofo”- è infatti riuscita a rendere al meglio la dialettica del pensiero anselmiano che oscillò tra fisicità e spiritualità, deduzione logica e intuizione, coscienza e libero arbitrio. «Mi ha affascinato questo dualismo– ha spiegato Sollima prima del concerto- che, poi, è caratteristico dell’uomo Medioevale, ma anche di uno come Francesco Borromini che visse in epoca barocca. Mi interessano tantissimo questi personaggi che hanno segnato o sono vissuti all’interno di una transizione. Storica ma, anche, umana. E Anselmo la transizione ce l’ha dentro.» Un inquieto movimento ha caratterizzato anche i cinquanta minuti della suite nella quale il dualismo tra la fisicità dei tamburi di Alfio Antico e la spiritualità metafisica dei violoncelli di Sollima e Monika Leskovar si è ricomposto, per dirla con Anselmo, in “unum argumentum”. «In realtà– ha, infatti, precisato Sollima- l’uso che Alfio fa delle percussioni va ben al di là del semplice ritmo, rifacendosi al linguaggio della cultura pastorale siciliana in cui naturalità e sacralità si fondono. Così come io uso il violoncello anche come uno strumento ritmico a percussione, lui ai tamburi tira fuori l’anima facendoli parlare, respirare e cantare. Mi interessano i musicisti che riescono a superare i limiti del proprio strumento facendolo diventare estensione della propria mente con cui viaggiare con la fantasia. La cantabilità del violoncello mi porta ad esplorare a fondo certi suoni, arrivando quasi a ferire il suono e trafiggere la voce.»
Anche altri suoi lavori, come le “Songs From the Divine Comedy”, si rifanno al Medioevo, cosa l’attrae di quel periodo? «La capacità che aveva la parola di generare, attraverso la sua tensione emotiva, la musica e l’essenzialità ricca di emotività, tipica di quel periodo, che è molto diversa da quella odierna. Sono partito dalla purezza di certe linee dalla musica medioevale, come se fossero l’archetipo dell’emotività, per poi portarla, attraverso cerchi concentrici, alle estreme conseguenze. Mi interessava stabilire un ponte con le origini, prendendo una sorta di architettura da reinventare sul piano emotivo creando un clima di atemporalità ipnotica. Non a caso alcuni brani hanno la forma del Raga indiano.»


Qual’è la molla che l’ha spinta ad uscire dai confini della musica classica per esplorare nuovi territori musicali, al punto da essere stato soprannominato “The Jimi Hendrix of the Cello”? «La curiosità è una malattia. Mio padre Eliodoro, anche lui musicista, volle che imparassi bene la tecnica perché mi venisse in soccorso quando ne avessi avuto bisogno, ma anche che mi mettessi alla prova con la pratica dell’improvvisazione, che nel Barocco era comune ma poi è sparita per rispuntare fuori con il jazz. Più che un creatore penso di essere un artigiano che associa e manipola materiali musicali provenienti da varie parti del mondo e da varie epoche. Oltre che a viaggiare nel mondo, i sandali di Sant’Anselmo servono e a ripercorrere, con spirito diverso, musiche dimenticate che sembra non siano mai esistite.»