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Cantautori

I favolosi sessanta anni di carriera di GINO PAOLI sul palco dello Splendor di Aosta

Paoli DSCF0068.jpgIl 14 febbraio aveva dovuto rinunciare ad esibirsi per un’influenza, ma la sera del 26 febbraio Gino Paoli è salito regolarmente sul palco del Teatro Splendor di Aosta, per il talk “Omaggio a Charles Aznavour” che il giornalista Enrico de Angelis ha condotto per la Saison Culturelle. Dopo che la cantante capoverdiana Karin Mensah ha reso un breve omaggio alla canzone francese con il marito, il pianista veronese Roberto Cetoli, ed il clarinettista Marco Pasetto, è entrato in scena l’ottantaquattrenne cantautore genovese, intercalando il pacato dialogo con De Angelis con alcuni duetti col pianista romano Danilo Rea, suo partner abituale da oltre un decennio. Paoli DSCF0025.jpg«La nostra sintonia è tale che è come se io suonassi il pianoforte e lui cantasse.- aveva spiegato Paoli nell’intervista prima del concerto Ormai siamo una coppia di fatto. Anzi, dovremmo fare outing. Così la gente si diverte, perché in questo mondo impazzito colpiscono più le stronzate che la musica. Sono saltati i limiti creati dalla tradizione e dalla cultura, e non li hanno superati gli artisti o gli scienziati che prima erano gli abituali trasgressori, ma gli imbecilli. Sono, così, venuti fuori i nostri difetti più palesi: la cattiveria, l’odio, l’invidia. Il loro regno sono i social, dove l’anomimato fisico fa sì che si tiri fuori il peggio di sé. L’affermazione stronza diventa un monologo, senza il contraddittorio di chi una volta al bar li avrebbe bloccati con un: “sta zitto imbecille”.» Paoli DSCF0011.jpgCon la “prevalenza del cretino” si è spesso scontrato. Ricorda quando nel 1963 presentò per la prima volta alla Bussola la sua traduzione di “Ne me quitte pas” di Jacques Brel? «Fui sommerso dalle proteste. “Basta! Che palle! facci le tue”, mi urlarono. Io li mandai a quel paese, urlando: “siete una gran manica di stronzi e non capite un cazzo di niente. Complimenti vivissimi, cari borghesi di merda.” Interruppi il concerto e con Sergio Bernardini, il boss del locale, volevamo annullare anche gli altri fissati per tutto il mese. Renato Sellani ci convinse, invece, a riprovare l’indomani. Aveva ragione, ci fu il pienone. Si vede che alla gente piace essere mandata a fare in culo.» Paoli DSCF0057.jpgDall’altra parte Paoli ha toccato con mano l’umiltà di grandi come Brel. «Dopo che aveva registrato le mie traduzioni di sue canzoni, mi chiese se il suo italiano era credibile. E quando gli dissi di no, perché, essendo belga, aveva un buffo accento tedesco, decise di non pubblicarle.» “Ne me quitte pas” fu, nel 1962, il lato B di un 45 giri che puntava sulla versione italiana di “Il faut savoir (Devi sapere)” di Charles Aznavour. «L’arrangiamento anticipava un po’ quello che avrebbe caratterizzato “Sapore di sale”. Conobbi Aznavour in quegli anni ad una serata organizzata con gli artisti della RCA. Era un omino piccolo, abbastanza insignificante fisicamente ma con degli occhi che vedevano tutto. Mi disse che nelle canzoni erano tre gli argomenti che funzionavano: amore, odio e morte. Credo proprio avesse ragione.» Le sue canzoni d’amore sono celebri, ma ha scritto anche canzoni d’odio? «Due o tre. Me ne sono pentito subito, però le ho scritte. Una era “Un po’ di pena”. “Se fossi almeno qualcuno  potrei odiarti e … sarebbe già tanto  in confronto del niente  che ora mi resta di te…”» Paoli DSCF0019.jpgAd Aosta di Aznavour ha interpretato “L’amour c’est comme un jour”. Poi ha cantato “Albergo a ore” (che, anche se non risulta, tradusse con Herbert Pagani) e due canzoni di Charles Trenet (“La Mer” e “Que reste-t-il de nos Amours”) tratte dall’album “3”, con cui nel 2017 ha omaggiato, con Rea, i grandi chansonnier transalpini. Finendo, inevitabilmente, con alcuni suoi evergreen . «Credo che il pubblico aostano si aspetti che canti le mie», si era schermito vezzosamente prima del concerto. Tra i tanti successi scritti in sessant’anni di carriera qual’è quello in genere il più atteso? «Penso “Sapore di sale”, perché è l’inno ad un periodo, i primi anni Sessanta, che Gianni Minà ha chiamato la Shangri La italiana perché la gente stava bene. C’era il lavoro e c’erano ancora stipendi decenti che facevano sì che anche l’operaio della Fiat venisse alla Bussola. E’ stata associata ad un periodo beato che sembrava dovesse durare, mentre in “Sapore di sale” lasciavo intravedere che non poteva durare, e avrebbe lasciato il gusto un po’ amaro di cose perdute.»Paoli DSCF0072.jpgPer esaudire la richiesta di “Ti lascio una canzone”, fatta dalle figlie dell’organizzatore Riccardo Piaggio, non ha finito il concerto con “Senza fine”, la canzone preferita da jazzisti come Wes Montgomery e compositori come Hoagy Carmichael (l’autore di Stardust”). «E’ diventata uno standard jazzistico. Il mio editore, Mariano Rapetti, padre di Mogol, all’inizio contava quante versioni erano state fatte. Arrivato a 430 smise perché si era stufato. I jazzisti dicono che sulle mie canzoni è facile improvvisare perché sono già jazzistiche. In effetti io sono nato col jazz. Con Luigi (Tenco) e Bruno (Lauzi) ne eravamo affascinati. E con il rock’n’roll, quello delle origini, è il genere musicale che più ha influenzato la nostra maniera di scrivere canzoniPaoli DSCF0038.jpg

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