E’ un momento importante per Sara Loffredi, la scrittrice di origini valdostane che vive a Milano. Einaudi le ha recentemente pubblicato il romanzo “Fronte di scavo”, una storia ambientata agli inizi degli anni Sessanta durante i lavori di scavo del tunnel del Monte Bianco.
Ma è anche un momento doloroso, come per tutta l’Italia, che ha bloccato le numerose presentazioni che aveva in programma (fra cui quella all’aostano Festival MontLivres), limitandola a quelle via web. «Dall’inizio della quarantena sono a Milano, tappata in casa.- racconta- Le mie finestre danno su Via Ranzoni, nella zona San Siro che, normalmente, è trafficata giorno e notte. Adesso, invece, è spettrale. I miei genitori sono a Brescia, nell’epicentro della pandemia. Lì ci sono state così tante morti che la paura per l’adesso sovrasta tutto, mentre nella mia cerchia milanese c’è ansia per il dopo.»
C’è qualche legame tra la storia che racconti nel libro e l’attuale situazione?
«Potrebbe essere la metafora del tunnel di cui ti sembra di non vedere la fine. Ma, ancora meglio, il fatto di sentirsi comunità con un unico obiettivo, che, però, nel romanzo è scelto, mentre in questa situazione è imposto. Adesso si creano barriere che, invece, nel romanzo si abbattono per creare le connessioni infrastrutturali grazie alle quali l’Europa è diventata Europa. E, comunque, alla fine questo ci dimostra che siamo tutti connessi e non puoi tenere le cose fuori da un muro.»Non trovi che anche adesso ci sia una ribellione della natura alla sua manipolazione, come fu la valanga del Monte Bianco del 5 aprile 1962, che travolse gli alloggi degli operai, uccidendone tre?
«Chiamo il Monte Bianco la Regina Bianca, perché per me è una femmina che, penetrata, fa sentire la sua voce. Con la valanga volle ricordare agli uomini che volontà e razionalità valevano fino a un certo punto. Bisogna rispettare i ritmi naturali. Se li ascolti lavorano anche loro per te, se invece cerchi d’importi con la forza vengono fuori disastri.»
Una contrapposizione che si trova anche in due protagonisti del romanzo come Ettore ed il capocantiere Hervè, vero?
«Ettore è un ingegnere milanese con la testa piena di razionalità e numeri. Il valdostano Hervè gli fa subito respirare la montagna, portandolo per la prima volta a camminare su per i bricchi. E trovando il suo passo, Ettore entra in sintonia con la Regina Bianca. Sono due punti vista diversi, uno di città ed uno di montagna, che però riescono a trovare dei punti d’incontro che li aiutano a crescere. Un po’ come successe col tunnel che fece incontrare Italia e Francia.»
Il romanzo “è una storia vera e allo stesso tempo non lo è” che si svolge in Valle d’Aosta, dove hai vissuto fino a 6 anni. Cosa ti ha spinto a scriverlo?
«Fin da piccola mi affascinava l’idea che sotto una montagna così alta qualcuno avesse pensato di scavare un tunnel. Per capire ho letto molto e parlato con gente come Franco Cuaz, primo direttore di esercizio del tunnel. La storia, che si ferma il giorno dell’abbattimento dell’ultimo diaframma, il 14 agosto 1962, è ambientata in una cornice minuziosamente ricostruita. Anche un personaggio inventato come il rebeiller Samiel ha precisi riferimenti ad Attilio Rolando che, da bambina, mi rimise in piedi dopo una caduta da un albero. E, poi, se ho iniziato a scrivere è stato grazie alle storie che, visto che ero pigra, mio padre mi faceva inventare per farmi camminare sulle meravigliose montagne valdostane.»