Era un pianista “evergreen” (sempreverde). Come erano “evergreen” le ballads che Renato Sellani (Senigallia 8 gennaio 1926- Milano 31 ottobre 2014) prediligeva suonare. «Perchè voi italiani non amate le ballads?– gli aveva chiesto un giorno Chet Baker– Solo tu le fai bene…».
Del leggendario trombettista americano Sellani mi aveva parlato il 20 ottobre 1994, quando, con Nicola Arigliano, aveva inaugurato la rassegna “Jazz 33” alla Brasserie del Casinò di Saint Vincent. «Negli anni Sessanta ho lavorato diverso tempo con Chet.- mi aveva detto- Era un artista incredibile, di cui ho un ricordo da pelle d’oca. Come uomo, invece, certe sere era difficile comunicare con lui, perché quando si è schiavi di quella cosa lì si diventa cinici. E lui era diventato molto cinico, finendo per lavorare solo per procurarsi le dosi di droga.»
Considerato il papà del jazz italiano («meglio lo zio– scherzò- perché il papà è troppo importante»), Sellani non ha raggiunto la meritata popolarità presso il grande pubblico per una certa qual pigrizia e una naturale discrezione, che anni fa gli valsero l’Agordino d’oro, premio alla discrezione consegnatogli, ad Agordo, dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Discrezione che si è riflessa nella sua musica, caratterizzata, come ha scritto il critico Franco Fayenz, da una “inestimabile capacità colloquiale data dal tocco raffinato, pensoso, intimo e sorretto dalla tecnica perfetta, dal fraseggio sicuro e perfino dal prediletto tempo medio, per cui ogni ascoltatore riceve emozioni e sentimenti come se il pianista suonasse soltanto per lui.”
«E’ questione di carattere.-mi aveva spiegato a Saint-Vincent- Chi è estroverso ha bisogno di parlare molto e mettersi in mostra, io, invece, sono introverso per cui amo stare “dietro” e servire, perché accompagnare altri artisti è servire. Qui a Saint-Vincent sono con Arigliano, ma, per rimanere ai cantanti, ho avuto la fortuna di fare tanti dischi con Mina, di cui sono amico fraterno. Ho, inoltre, accompagnato Billie Holiday e fatto tournèe con Sarah Vaughan ed Helen Merrill. Una sera, poi, ho insegnato “Volare” a Ella Fitzgerald. Niente male per uno che è autodidatta e non ha mai posseduto un pianoforte.»
Parlare con Sellani è, infatti, un ripasso, con annessi gustosi aneddoti, della storia del jazz, e della musica in generale, visto che è capace di passare da Dizzy Gillepie («mi disse che per suonare jazz ci vogliono tre cose: studio, swing e cuore») a Igor Stravinsky («quando l’ho conosciuto personalmente, mi ripetè che c’erano due tipi di musica: quella buona e quella brutta»). Senza contare, poi, di quando divaga sui suoi innumerevoli interessi («Mi manca di mangiare il fuoco e ho fatto tutto!»): dal biliardo allo sport (ha giocato a tennis con Nicola Pietrangeli e Nereo Rocco, lo voleva sempre vicino nelle partite di coppe internazionali del Milan).
I veri amori di Sellani restano, comunque, musicali. «Quello che più mi ha toccato è Bill Evans perché lo sento romantico come me.- mi confessò- Rimane ineguagliabile: molti hanno cercato di copiarlo senza però averne l’anima. Mi ha insegnato che il jazz è soprattutto poesia. Ho, poi, sempre avuto presente quanto mi disse Lee Konitz quando, nel 1958, venne per la prima volta in Italia e mi scelse come pianista: “E’ meglio suonare male, che copiare un altro”. Per cui ho sempre cercato di avere un mio linguaggio che riflettesse il mio modo di essere.
Non a caso ho intitolato un mio brano “Suono come Sono”.»