I movimenti che sconvolsero socialmente gli anni Sessanta furono movimenti che cantavano. Non avrebbe potuto essere altrimenti, visto che ad esserne protagonisti furono i giovani che, dopo anni di “ordinaria” repressione, portarono il loro protagonismo ribelle e la loro impaziente speranza di rinnovamento anche nelle canzoni (da sempre veicolo importante delle istanze sociali delle classi più deboli).
“Avanti o popolo con la chitarra rossa”, dunque (per dirla con Zucchero). A cominciare da quel gruppo di giovani intellettuali torinesi che, tra il 1958 ed il 1962, fece da ponte fra le lotte partigiane e le battaglie ideali e sociali del dopoguerra, opponendo alla “gastronomica” canzonetta nazionalpopolare degli anni del pre-boom l’idea di una musica intelligente («un prodotto d’arte che spiegasse che esistevano guerra e consumismo, terzo mondo e morti sul lavoro»). Anche il nome, “Cantacronache”, coniato da Michele Straniero, testimoniò il proposito di “evadere dall’evasione”, «ritornando a cantare storie, accadimenti, favole che riguardino la gente nella sua realtà terrena e quotidiana.»
Il nucleo costituente comprendeva musicisti come Fausto Amodei, Sergio Liberovici e sua moglie Margherita Galante Garrone, in arte Margot, e scrittori come Straniero, Giorgio De Maria ed Emilio Jona. Ma la collaborazione si allargò a grafici, pittori e gente come Italo Calvino, Franco Fortini, Umberto Eco, Giacomo Manzoni, Fiorenzo Carpi, Dario Fo, Giustino Durano, Gianni Rodari. I modelli? Le canzoni di Brassens, Prevert, Bertold Brecht, Kurt Weill e Paul Dessau. «Mirando alto, perché per mirare basso è inutile muoversi.»
I filoni seguiti furono la canzone sociale, il pacifismo, le voci provenienti da paesi in lotta contro dittature o colonialismo, la salvaguardia dell’ambiente, le favole per l’infanzia e la riscoperta di un folklore “progressivo” (che portò al recupero di canti come “Le otto ore” e “Vi ricordate del 18 aprile”). «Creammo un pugno di versi rabbiosi e tristi, ironici e disperati.– ricordava Straniero (morto nel 2000)- Ad un severo vaglio estetico, di quelle canzoni oggi, forse, non se ne salverebbe che un dieci per cento. Ma erano nostre: dicevano le cose che noi volevamo dire, parlavano con la voce che noi volevamo sentire, cantavano la nostra speranza e la nostra giovinezza. E, soprattutto, erano diverse perché non cercavano di vendersi al miglior offerente, ma (addirittura!) di cambiare la nostra vita e la faccia del mondo.»
Alcune- le “everreds(le semprerosse)”, come le chiamava lui- sono rimaste nella memoria collettiva. Canzoni “Dove vola l’avvoltoio?” o “Oltre il ponte” di Calvino e Liberovici, “Se non li conoscete” e “Per i morti di Reggio Emilia” di Amodei e “Un paese vuol dire non essere soli” di Mario Pogliotti.
Quest’ultimo, dagli anni Settanta valdostano d’adozione, dei “Cantacronache” fu la “colonna romana”, distinguendosi per la disincantata ironia dei suoi testi. «Mentre gli altri usavano toni più diretti, da “j’accuse”,- spiegava- io avevo un approccio apparentemente più morbido, ma facendo finta di parlare a favore cantavo contro. Il mio disco del 1960 si chiamò, infatti, “Cantacronache ben temperato” perché applicai delle parole dure a motivi molto delicati, quasi bachiani. ”La ruota”, per esempio, è una fuga.»
Inutile dire che i “Cantacronache” ebbero una chiara collocazione politica(“Nel blù dipinti di rosso” titolò un settimanale dopo il loro esordio romano nel giugno del ‘58). Ebbero, però, anche il coraggio di porsi in posizione critica verso la sinistra e di concludersi quando ritennero di aver esaurito il loro corso(confluendo nel “Nuovo Canzoniere Italiano”). Si lasciarono dietro otto dischi di “Cantacronache”, tre di “Cantafavole”, tre di “Canti di protesta del popolo italiano” ed il libro ”Le canzoni della cattiva coscienza”.
Loro devoti discepoli si professano, ancora oggi, cantautori come Francesco Guccini e Francesco De Gregori. «Io mi sento un pò un figlio degenere dei Cantacronache– ha confessato quest’ultimo- perché ho sempre avuto l’idea che le canzoni non possono cambiare il mondo ma possono provare, in minima parte, a raccontarlo, cercando le persone dentro la storia e narrando la storia di ognuno da angolazioni diverse.» E Umberto Eco ha aggiunto: «Se non ci fossero stati i Cantacronache la storia della canzone italiana sarebbe stata diversa.»