Diavolo d’un Garbarek! Quando, quel 3 maggio 2000, gli chiesi attraverso quali vie fosse arrivato alla maliosa, cangiante, inafferrabile musica che aveva ipnotizzato lo sparuto pubblico accorso al Palais Saint-Vincent, il sassofonista norvegese (Mysen 4 marzo 1947) placidamente se ne uscì parlando di giardinaggio.
«Ho iniziato a quattordici anni suonando brani zeppi di note, come “Countdown” di John Coltrane.- raccontò- Poi ho cominciato a fare un po’ di pulizia, potando i rami secchi ed estirpando le erbacce che c’erano nella mia musica. Finché mi sono ritrovato con un terreno vergine nel quale finalmente coltivare qualcosa di nuovo». Semplice, no? Roba, quasi, da coltivatori diretti.
Così, dunque, sarebbe nato l’appassionato, evocativo, inimitabile suono di Jan Garbarek, “il più bello dopo il silenzio” – come recita lo slogan della ECM (l’etichetta tedesca che lui ha contribuito a fare grande). Come la metti, ribattei, con tutte le etichette (jazz, world-music, new age) che ti hanno appiccicato? «La musica che suoniamo con il gruppo non è jazz, sarebbe pretenzioso chiamarlo così. Sono partito suonando jazz, ma in pratica imitavo John Coltrane, Dexter Gordon, Archie Sheep. Poi ci sono stati gli incontri con musicisti come Keith Jarrett e Don Cherry. Quest’ultimo, in particolare, mi ha aperto gli orizzonti della folk music.»
Il jazz è diventato, quindi, la chiave per aprire mondi sonori sempre più lontani dal suo grande Nord. Sono, così, iniziati i viaggi nello spazio (con il brasiliano Egberto Gismonti, l’indiano Shankar, il libanese Anour Brahem, il pakistano Ustad Fateh Alì Khan) e nel tempo (il fortunato “Officium” con musiche rinascimentali suonate con l’Hilliard Ensemble).
Tanto trambusto per, poi, dichiarare: la musica più esotica l’ho trovata nel cortile di casa. «Proprio così. – confermò-Quando ho cominciato ad ascoltarla, la musica folk norvegese è suonata alle mie orecchie molto esotica. Siccome in quel periodo suonavo con molti musicisti americani, ho fatto loro ascoltare dei nastri e gli ho chiesto da quale zona pensavano venisse quella musica. Alcuni hanno risposto Nord Africa, altri Asia. E si sono stupiti quando ho detto che era Norvegese. Ci sono forti similitudini tra le musiche arcaiche del mondo e scoprendole si può elaborare un linguaggio musicale che vada bene in tutte le culture.»
Anche i compagni di viaggio più fedeli hanno finito per diventare quelli delle sue parti, come i tedeschi Eberhard Weber (basso a 5 corde) e Rainer Brüninghaus (tastiere) e la danese Marylin Mazur (percussioni). Tutti bravissimi nel rendere un repertorio che nella tappa valdostana (l’unica in Italia. Chi, d’altronde, era disposto a pagare per questo tipo di musica ben 81 milioni di vecchie lire?) attinse soprattutto dai CD “Visible World” e “Rites”.
La Mazur, in particolare, strabiliò “ballando” con un set di percussioni multietnico e ritagliandosi un delizioso spazio solistico in “Rainbow birds”. «La mutevolezza della mia musica- concluse Garbarek- è anche merito delle molte sfaccettature dei musicisti del mio gruppo. Pur lavorando con loro da molti anni, ai miei occhi conservano ancora molti segreti. Un po’ di mistero, d’altronde, rende più interessanti, e permette di continuare ad imparare».