Era il 1997, e le edizioni Sonda di Torino affidarono a Vincenzo Calì e Giulio Cappa il terzo capitolo (i primi due erano stati “Romani” e “Liguri”) della serie “Le guide Xenofobe” che doveva tracciare “un ritratto irriverente dei migliori difetti dei popoli d’Italia”.
Ne venne fuori “Valdostani”, un manualetto di 95 pagine che, dietro un’inebriante leggerezza di scrittura, nascondeva un riuscito approfondimento sociologico su una microregione sconosciuta a molti italiani (e, per certi versi, anche a molti valdostani).
Partendo dai luoghi comuni più triti, Cappa e Calì trasgredirono, forse per la prima volta, alla tacita consegna del “si fa ma non si dice”. E se si sorrideva con macchiette come “il geometra pagatore (di bevute)” o la “tabella delle buone maniere” (influenzate dall’altitudine), il sorriso si fece amaro quando parlarono della politica dell’iperprotettiva Mamma Regione prodiga di contributi (“intesi come status symbol: più se ne ricevono e più si è importanti”), cariche e appannaggi pubblici (“1300: uno ogni novanta abitanti, neonati compresi”) nonché posti di lavoro (“la massima aspirazione dei bambini valdostani, condivisa dalle mamme, è vincere il concorso per essere assunti in Regione”).
Illuminante fu, poi, l’apertura del capitolo “Il carattere”: «Il segreto del camminare in montagna, si sa, è mantenere un passo lento e regolare: si arriverà dappertutto, basta non rompere l’andatura. Il valdostano ha applicato questa tecnica alla sua visione del mondo: ”Si è sempre fatto così, perché si dovrebbe cambiare adesso?”. Per fare accettare al valdostano una novità, quindi, basta convincerlo che si tratta in realtà di un’antica tradizione».
Immobilismo e chiusura che si riflettevano sui tratti descritti nei capitoli dedicati all’”ospitalità” (“la regola è ciascuno a casa sua”), “lo scontento” (“il valdostano vede il futuro così nero che più nero non si può. Ma a differenza del ligure…la sua visione apocalittica è motivo sufficiente per rinunciare a qualsiasi velleità”) e “il gruzzolo invisibile” (“i ricchi veri non si fanno riconoscere…Ci si difende soprattutto contro l’invidia, vizio capitale che è particolarmente pungente in un ambiente piccolo dove, pur senza informarsi mai, tutti sanno tutto di tutti”).
«Il libro non è rivolto ai valdostani-avvertirono gli autori- bensì a chi, venendo da fuori, ci vorrebbe conoscere. Il fatto, poi, che i valdostani siano molto curiosi per tutto ciò che li riguarda fa sì che, probabilmente, siano interessati a leggere il libro».
Cosa vi ha spinto a scrivere il libro?, chiesi. «Essendo di famiglia calabrese,- rispose Calì- fin da piccolo mi sono chiesto: ma io che cosa sono? Anche se sono nato ad Aosta, non mi è mai venuto spontaneo dire “sono un valdostano”. Mi è sembrato interessante, quindi, fare una riflessione su cosa voglia dire essere valdostano scrivendo un libro umoristico».
Più pungente la spiegazione di Cappa: «Come nei regimi totalitari anche in Valle ci sono delle cose che tutti sussurrano e nessuno dice. Noi abbiamo cercato di dirle perché si smetta di sussurrarle e si esca un pò più allo scoperto. Non è certo con un libro umoristico che si cambia una mentalità, ma magari chi ride di queste cose riderà un po’ più liberamente anche quando si ascoltano certi discorsi ufficiali o si prendono troppo sul serio delle cose che non lo sono».