In anni social in cui, parafrasando Stalin, la morte di un gattino è una tragedia e quella di migliaia di persone una statistica di scarso interesse, scrivere di Mauthausen, il campo di concentramento nazista a 25 chilometri da Linz, in Austria, può sembrare obsoleto, se non noioso.
Al massimo qualche faccina triste potrebbero meritarla i 130.666 prigionieri “orribilmente assassinati dai carnefici nazisti” tra il giugno 1938 al 5 maggio 1945.
O potrebbe incuriosire la classifica delle vittime distinte per nazionalità che vide in testa, con oltre 30.000 morti a testa, sovietici e polacchi, con gli italiani, che cominciarono ad arrivare in massa solo dopo l’11 settembre 1943, ben “piazzati” con 5750 morti (molti di più che nella più famosa Auschwitz).A titillare la curiosità potrebbe sicuramente contribuire il gusto splatter e la perversa fantasia dei metodi con cui vi si attuò lo sterminio attraverso il lavoro forzato nella vicina cava di granito, la consunzione per denutrizione e stenti e l’annientamento della personalità. A cominciare dal muro dei “paracadutisti” da cui venivano fatti precipitare i prigionieri, già esili e denutriti, dopo che avevano salito, in file da 5, i 186 scalini della Scala della morte trasportando grossi blocchi di pietra, pesanti fino a 50 chilogrammi, con zaini di legno legati alle spalle.
O i “Totbadeaktionen” (Bagni di morte)” in cui migliaia di prigionieri furono costretti a rimanere tutta la notte all’aperto nudi, con temperatura sottozero, irrorati con acqua gelata. O “il bacio del cane” che era lo sbranamento dei prigionieri da parte di due mastini napoletani appositamente addestrati a farlo a comando.
Altissimo era, inevitabilmente, il tasso di suicidi, perché era preferibile una morte più “dolce” e rapida facendosi sparare dalle guardie o buttandosi dal muro dei paracadutisti o sui reticolati ad alta tensione del campo.Molti dei sarcastici nomi dei metodi di eliminazione li coniò il maggiore delle SS Franz Ziereis che comandò con spietatezza il campo dal 9 febbraio 1939 al 5 maggio 1945. Era lui che accoglieva i nuovi arrivati indicando i camini del forno crematorio come “l’unica uscita” dal campo. Ferito, dopo aver tentato la fuga, morì il 25 maggio 1945 in conseguenza delle ferite riportate durante la cattura dagli americani. Le sue ultime parole furono “Non sono un uomo malvagio!”. Affidato agli ex prigionieri, il suo corpo fu appeso sul filo spinato di una recinzione del vicino campo di Gusen.
I camini cui si riferiva Zieres erano le tre ciminiere degli impianti di cremazione (per un totale di quattro bocche di forno). Vicino ai forni, sotto il cosiddetto Bunker, c’era una piccola camera a gas camuffata da sala docce dove venivano soffocati con lo Zyklon B anche 60-80 uomini per volta. I forni crematori del campo avevano una bocca molto piccola, dimensionata per contenere gli scheletrici corpi delle vittime che il lavoro massacrante e la denutrizione riducevano allo stato di Muselmann, che nel gergo del lager erano i deportati che, ridotti a uno stadio di consunzione estrema, cadevano sfiniti in ginocchio con le mani in avanti come la tipica posa dei musulmani che pregano. Ex reclusi del Bunker testimoniarono nei processi del dopoguerra ai nazisti di aver udito, dalle loro celle, acute grida di persone che venivano introdotte nei forni ancora vive.
Per rappresaglia, al momento della liberazione, stessa sorte toccò per rappresaglia a massacratori come “il Negro”, che uccideva i prigionieri fischiettando. A proposito di musica: il campo aveva un’orchestrina, che, nel giugno 1942, fu costretta a suonare durante il macabro corteo che, davanti a tutti i prigionieri, accompagnò all’esecuzione il prigioniero austriaco Hans Bonarewitz che aveva tentato di fuggire.
La mia Mauthausen.
Quanti sguardi superando i reticolati hanno vagato sulle colline in questa stagione così verdi, tenere, serene? Regna un silenzio profondo ma è come se intorno vagassero le ombre di coloro che qui sono rimasti.
Ho posato le mani su questi tragici muri, vorrei mi potessero sentire, vorrei far sapere loro che anche dopo tanti anni io li sento, vorrei con una carezza infondere un po’ di vita persa.
Sotto un cielo inesorabilmente sereno ed un sole accecante, qualcosa si muove nel profondo. Nella penombra, le bocche nere dei forni le condotte dei gas sono la realtà di un tragico incubo.
Mi vorrei svegliare. Potessi.
Mi sono ritrovato nei tuoi versi