A ben vedere non è un caso che, in Valle d’Aosta, un musicista come lo statunitense Pat Metheny si sia sempre esibito in location storiche. Lui che, in oltre 40 anni di una monumentale carriera, ha fatto la storia della chitarra, venduto milioni di dischi e vinto 20 Grammy Award, riuscendo, come forse nessuno, a muoversi in equilibrio tra sperimentazione ed orecchiabilità, mettendo d’accordo critica e grande pubblico. Lo conferma l’inserimento, nel 2015, nella Downbeat Hall of Fame, come prima di lui era successo solo a tre leggende della chitarra come Django Reinhardt, Charlie Christian e Wes Montgomery. In Valle nel 2012 aveva suonato al Forte di Bard e nel 2010 in quello stesso Teatro Romano che la sera del 26 luglio lo ha ospitato per l’appuntamento clou di Aosta Classica 2018.
«In entrambi i casi precedenti la Storia con la esse maiuscola è stata una componente molto forte dell’emozione che a ogni concerto porto con me sul palco.-ha ricordato prima del concerto– Nel 2012 ho suonato nel Forte napoleonico all’ingresso della Valle, nel 2010 ne ho, invece, profittato per visitare Aosta. Ho, così, visto le rovine del castrum e l’Arco di Augusto, toccando con mano l’idea che i Romani avevano di Civiltà. Un popolo di conquistatori che, però, anche nei luoghi più inimmaginabili e all’interno delle mura delle loro città fortificate costruiva un teatro. Perché, a differenza dei moderni imperialismi, i Romani avevano scelto la strada dell’integrazione culturale. Il ricordo di questa costruzione di duemila anni fa, capace di contenere quattromila persone, è rimasto fisso nella mia mente.»
Metheny conferma, così, come dietro al grande musicista ci sia un grande uomo. Colto, curioso e partecipe di ogni aspetto della realtà che lo circonda. Anche quello sociale. Quando iniziò la carriera, gli abbiamo fatto notare, gli USA erano pieni di speranza per la fine della guerra del Vietnam, adesso c’è Trump, si è riflesso sulla sua musica lo spirito dei tempi? «Con la musica non si fanno rivoluzioni sociali, ma in quegli anni era espressione di una volontà di cambiamento radicale. Le istanze di socializzazione sono, però, state sconfitte dal sequestro che le multinazionali della musica hanno messo in pratica. Quelle “vibrazioni”, che in tutto l’Occidente attraversavano il mondo dei giovani e che io ho condiviso, oggi non le sento tanto diffuse. Non dico che non ci siano ancora musicisti che le sostengano, ma, per usare una metafora, sono isole più che continenti.»
Ad aprile, a Washington, Metheny è stato premiato con il NEA Jazz Masters, il più alto riconoscimento che gli USA riservano ai jazzisti. In quell’occasione ha pronunciato un nobilissimo discorso in cui ha contrapposto la durata della grande Musica ai politici che vanno e vengono. «Di molti politici di oggi non resterà memoria alcuna.- conferma- Spero che tutto questo ritorno alla chiusura, ai nazionalismi e al populismo non prevalga, perché il nostro bellissimo pianeta rischia di diventare un posto in cui sarà sempre più difficile vivere. Sembra che una parte dell’umanità sia indifferente alla desertificazione fisica della Terra e quella mentale degli individui. L‘Europa sembra sia messa un po’ meglio degli attuali USA, ma secondo me le cose, anche nel vostro paese, hanno imboccato una strada sbagliata. C’è una tendenza davvero preoccupante a rigettare i valori della cultura e della scienza. Si seminano fake news e le si fanno lievitare creando nelle persone paura e rabbia.»
Grande musica è stata sicuramente quella che Metheny ha fatto per due ore e mezzo al Teatro Romano con la bassista di origine malese Linda May Han Oh, il pianista Gwilym Simcock e il batterista Antonio Sanchez, coi quali dal 2016 porta avanti un progetto di rilettura delle sue composizioni. «Con loro tornano a nuova vita. Con Sanchez, che scoprii al Festival di Torino nel 1999, l’intesa musicale è perfetta, e Gwilym e Linda, che è la bassista più melodica che conosca, sono cresciuti ascoltando la mia musica. Siamo in grado di suonare qualsiasi brano del mio repertorio, per cui la scaletta la decido in base alla risposta del pubblico, che mi guida nella scelta dei brani e di quando è il momento per imbracciare la chitarra acustica, piuttosto che l’elettrica o la synth.»
Partito con “Make Peace”, il brano finale dell’album registrato nel 2006 con Brad Medhau, Metheny ha scorazzato nel suo songbook, con una sequenza finale con le storiche “Phase Dance”, “Question and Answer” e “Minuano”, ma senza la prevista, ed attesa, “Are you going with me”. «L’Italia è il paese in cui l’amore per le belle melodie è un dato oggettivo,- ha concluso- il che mi ha portato a perseguire in modo ancor più deciso la convinzione, maturata da ragazzo, che la melodia sia la componente primaria ed essenziale della musica. Una volta che hai trovato una bella melodia la puoi suonare anche su un solo strumento, cantare o fischiare. Il resto è costruzione, lavoro di cesello. Il tempo, il ritmo e l’armonizzazione che reputo più appropriati ad esaltarla vengono dopo. Tuttavia in tutti questi anni ho maturato una cifra sia ritmica che armonica che, credo, siano abbastanza inconfondibili.»
Le foto non firmate sono di AOSTA CLASSICA. Grazie ad Antonello VITALE e Francesco BATTISTI per aver permesso l’intervista.