Gary Burton è stato uno dei protagonisti degli ultimi 60 anni di storia del jazz. Nato il 23 gennaio 1943, a vent’anni si è, infatti, affacciato alla ribalta mondiale con un tour negli Stati Uniti ed in Giappone con il pianista George Shearing. Nel 1967, con il Gary Burton Quartet, ha, poi, contribuito alla svolta verso il jazz-rock, portando progressivamente la tecnica vibrafonistica a livelli di autentico fumambolismo.
Lo incontrai la prima volta il 6 novembre 1992, quando, per la Saison Culturelle, si esibì al Giacosa di Aosta con un quartetto formato da Makoto Ozone (piano), Kurt Rosenwinkel (chitarra), Matt Garrison (basso) e Martin Richards (batteria).
Accanto alla ben nota bravura, il folto pubblico di appassionati accorso ebbe modo di apprezzare una capacità di coinvolgimento emotivo non sempre riscontrabile nelle incisioni in studio, ed in apparente contrasto con l’aspetto da distaccato e serioso professore universitario.
Una comunicativa, dimostrata anche durante la chiaccherata avuta nel camerino del Giacosa.
In musica la comunicativa passa, inevitabilmente, attraverso la melodia. E la melodia ha sempre avuto molta importanza nel suo repertorio. E’ d’accordo?
«E’ stato Stan Getz, il grande sassofonista con cui ho suonato, che mi ha insegnato a prestare più attenzione alla melodia.- rispose- A questo proposito il vecchio repertorio dei musical americani è una miniera inesauribile di melodie. Suono sempre due o tre standards nei miei concerti. Questa sera ho in scaletta “What is this thing called love” ,”My Funny Valentine” e “On the streeet where you live”».
Ci sono delle musiche composte negli ultimi anni che potrebbero diventare degli standards jazzistici ?
«Molto poche. Per quanto riguarda la musica pop-rock amo molto la musica dei Beatles che è molto lirica. Le loro armonie sono molto sofisticate ed interessanti. Attualmente i jazzisti tendono a utilizzare temi strumentali di propria composizione. Tra i melodisti jazz più fertili e brillanti in circolazione metterei Keith Jarrett, Chick Corea, Pat Metheny, Vince Mendoza e Mitch Forman. Nei miei album ho spesso utilizzato loro composizioni».
L’intensa “Gorgeous” di Mitch Forman, dal cd “Cool Nights”, fu, infatti, particolarmente apprezzata ad Aosta.
Negli anni ’60 è stato uno dei primi a cercare di fondere il jazz con certe soluzioni della musica rock.E’ d’accordo con l’etichetta di padre della musica fusion ?
«Nel 1967 ho formato il mio primo complesso fusion con Larry Coryell. Un’altro chitarrista,Gabor Szabo, iniziò in quel periodo a fare esperimenti simili. Nel 1969 fu la volta di John McLaughlin, Miles Davis e molti altri musicisti. Dopo una fase iniziale molto promettente, adesso la qualità tende, però, al ribasso, anche se ci sono dei validi esponenti come Bill Evans, gli Spyrogira, David Sanborn».
Se dovesse consigliare tre dischi della sua immensa produzione, quali sceglierebbe?
«“Crystal Silence” con Chick Corea, forse “Reunion” con Pat Metheny e sicuramente “The new tango” con Astor Piazzolla che è uno dei musicisti che ammiro di più».
“Laura’s Dream“, tratto da quest’ultimo album, è stato forse l’apice della serata grazie al magnifico interplay con Makoto Ozone, pianista dalle dita d’acciaio, definito “un Chick Corea rifatto da un computer”, che dimostrò anche una raffinata sensibilità da “balladeur”.
La quartetto con chitarrista con cui si è esibito ,sembra essere la formazione a lei più congeniale.
«Ho inciso il mio primo disco con il quartetto del chitarrista Hank Garland. Mi piace come si combinano chitarra e vibrafono, è un suono che funziona bene».
Secondo il grande vibrafonista Milton Jackson è il vibrato che dà al vibrafono la sua ragione d’essere?
«Non sono d’accordo. Io, in genere, uso il suono naturale dello strumento ed è proprio questo che mi ha permesso di sviluppare la mia tecnica con quattro battenti».
Nel suo disco con Keith Jarrett del 1970 c’è uno dei miei pezzi preferiti: “In your quiet place”. Cosa ricorda di quell’incontro ?
«Eravamo molto giovani allora e cercavamo di raggiungere una sintesi tra gospel, country e jazz. “In your quiet place” è una canzone strumentale di Keith che anche a me piace ancora moltissimo».
“In your quiet place” fu il pezzo con cui Burton chiuse, in solitudine, il concerto di Aosta.
Fu anche il pezzo che suono il 23 luglio 2009, quando, tornato ad Aosta per esibirsi al Teatro Romano con il pianista Chick Corea, nel pomeriggio tenne uno showcase per musicisti valdostani nella sede dell’Associazione “Tamtando”.
«La musica– spiegò- è un tipo di linguaggio in cui, al posto delle parole, usiamo le note. Con gli anni ciò diventa naturale e si finisce per suonare come si parla, senza pensare a quello che si sta facendo tecnicamente. Io, per esempio, ho imparato a parlare in musica tra i 6 ed i 15 anni. Superato l’apprendimento tecnico, si deve abbandonare la paura di sbagliare e, acquisendo consapevolezza di sé e di quelli con cui si suona, bisogna abbandonarsi alla musica. E’ questo che fa la differenza tra un semplice esecutore e un musicista espressivo. Quando, dopo la parte solistica, si passa ad accompagnare bisogna cambiare completamente mentalità, mettendosi “dietro” e cercando di ascoltare l’altro con attenzione. Io, in particolare, quando accompagno penso di avere 4 braccia, con due mani che suonano il piano con Chick e due che accompagnano».
Esempio che si materializzò in “Señor Mouse”, il bis conclusivo del concerto serale, in cui Corea e Burton suonarono il vibrafono a quattro mani, scambiandosi continuamente i ruoli.