All’esterno del Prins Hendrik Hotel di Amsterdam c’è una targa che recita: «Il trombettista e cantante Chet Baker morì in questo luogo il 13 maggio 1988. Egli vivrà nella sua musica per tutti quelli che vorranno ascoltarla e capirla ».
La caduta dal terzo piano di questo squallido alberguccio per drogati fu, infatti, l’ultimo volo dell’angelo dalla tromba d’oro. E, anche, l’ultimo mistero: come avrebbe fatto il jazzista a cadere da una finestra larga appena 40 centimetri? Si confermava, così, la maledizione che aveva portato Chet agli onori della ribalta più per la folle vita randagia, polverizzata a 58 anni, che per la sua musica.
Cantava il dolore come solo Billie Holiday aveva saputo fare, ma, a causa della tossicodipendenza, non aveva mai un soldo in tasca. Lui, però, non ci faceva caso: «Morirò al verde – profetizzava – ed è giusto, perché è così che sono venuto al mondo».
Voglio cerebrarlo con i ricordi raccolti intervistando due grandi jazzisti italiani: il sassofonista Gianni Basso ed il trombettista Enrico Rava.
GIANNI BASSO (nel 1998): «Con Chet ogni concerto era un’avventura. Una volta siamo andati ad inaugurare il Palazzetto dello Sport di Mantova davanti a cinquemila persone. L’organizzatore disgraziatamente gli ha detto: “Mi raccomando Chet ,stasera faccia dei pezzi un po’ veloci e allegri”. Allora lui ha cominciato e finito con “My Funny Valentine” (brano bellissimo, ma nè veloce nè allegro: n.d.r.). Era un artista. Aveva tutte le qualità degli altri musicisti ed in più il fascino di una maniera unica di suonare e di cantare. Mi raccontava che aveva iniziato suonando il trombone, ma gli piaceva soprattutto cantare. Così, quando da militare gli hanno dato una tromba lui si è messo a cantarci dentro».
ENRICO RAVA (nel 2008): «Nel 1973 ero a New York quando ho letto sul giornale “Chet is back”. Sono, così, andato a sentirlo all’”Half Note” al rientro dopo bruttissime avventure di vita. Non era più brillante come agli esordi perché fisicamente era provatissimo, ma era sempre grandissimo ed il suo suono era diventato il suono dell’anima. Come, infatti, scriveva Proust in “À la recherche du temps perdu” la bellezza di un suono non sta nella perfezione, ma nell’essere il suono dell’anima. E’ questo suono, che esprime perfettamente sé stessi, che ogni strumentista deve cercare. E Chet ce l’aveva».