Lui sì che sa cosa voglia dire emigrare. Ha, infatti, provato sulla propria pelle l’estrema solitudine e il razzismo che ne sono l’ inevitabile corollario e li ha raccontati in libri di successo (il più famoso è “Il razzismo spiegato a mia figlia” che gli è valso il “Global Tolerance Award” dell’ONU). Non ci poteva, quindi, essere persona più adatta dello scrittore franco marocchino Tahar Ben Jelloun per parlare dell’esilio e dei suoi “effetti collaterali”. Lo ha fatto il 30 aprile, per “Babel”, con Giovanna Zucconi. La mattina, sotto il tendone allestito in piazza Chanoux, per i ragazzi delle scuole superiori e la sera al Castello di Sarre. «Partire– ha detto- è stato a lungo un sogno rischioso per i marocchini che dai caffè di Tangeri vedevano, a pochi chilometri, la Spagna. La
spinta era la speranza di cambiare qualcosa nella vita, ma nei miei libri ripeto che bisogna cambiare nel proprio paese, perché emigrare produce società infelici, sia dove si va che da dove si viene. Accanto all’esilio economico dovuto agli squilibri esistenti, ci sono, poi, l’esilio politico e quello, esistenziale, di chi si sente discriminato a casa sua da leggi o pregiudizi. E’ molto frequente perché tutti siamo diversi rispetto a qualcun altro. Su questa ovvia realtà si inseriscono, poi, discorsi politici e religiosi, che, invece di limitarsi alla coscienza dell’individuo ne condizionano, attraverso imposizioni, la sfera pubblica.» A questo proposito Ben Jelloun ha stigmatizzato l’ostilità della Lega verso gli immigrati mussulmani e le esternazioni del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. «Quando un capo di Stato ironizza sull’abbronzatura di un uomo di colore che, incidentalmente, è il presidente degli Stati Uniti – ha detto- non commette solamente una gaffe diplomatica, ma, essendo il leader del proprio Paese, autorizza implicitamente chiunque a fare lo stesso. Perché l’esempio viene sempre dall’alto.» Emigrato a Parigi nei primi anni Settanta, Ben Jelloun vi ha a lungo studiato, come psicoterapeuta sociale, i danni psicologici di cui erano vittima gli immigrati maghrebini che vivevano nelle periferie, finendo poi per raccontare le loro storie nei suo libri. «Nei primi anni Settanta c’era solo immigrazione maschile,
poi Giscard d’Estaing consentì il ricongiungimento del nucleo familiare senza troppo pensare che queste coppie potessero fare l’amore. Ci ritroviamo così con milioni di bambini arabi nati in Francia da immigrati. Molti di questi vivono nelle periferie e sono senza lavoro, con conseguenti episodi di delinquenza e, per reazione, campagne di intolleranza e repressione. Il ruolo dello scrittore, come l’intendo io, è tradurre in letteratura la rabbia di queste persone, esprimendo con parole comprensibili a tutti la complessità di problemi scatenati dall’ignoranza e dalla paura. Per farlo c’è bisogno di una grande capacità di ascolto e di rispetto verso gli altri. Non è, comunque, facile perché la realtà sempre più spesso supera la fantasia. Chi crederebbe, per esempio, ad una scena ambientata in una sala piena di corna come questa del castello di Sarre?» Ben Jelloun ha, poi, parlato, degli incontri con alcuni grandi scrittori come Jean Genet («ha scritto cose bellissime sebbene fosse un delinquente. Da lui ho imparato la modestia e l’umiltà») e Celine («un personaggio negativo, ma che ha portato grandi innovazioni nella lingua francese»). Qual’è il libro della sua vita?, ha chiesto la Zucconi. «Le mille e una notte.- ha risposto- Contiene tecniche di racconto oggi adoperate nei film polizieschi e, poi, affronta temi attualissimi, a partire dal fatto tutti scriviamo per non morire come Sheherazade, la giovane vergine che ogni notte raccontava al principe una storia perché non la facesse decapitare. Ci sono anche aspetti magici, come il viaggio istantaneo tra paesi lontani, riproposto in film di grande successo come “Avatar”, che all’epoca servivano per combattere l’angoscia esistenziale e le paure degli uomini.» E funzionano?, ha ribattuto la Zucconi. «Non so», ha concluso, sorridendo, Ben Jelloun.