Si chiama Young, ma young (giovane) ormai non è più. Anche se viene, infatti, presentato come il “fenomeno emergente della musica soul mondiale”, Roy Young ha la non più verde età di sessantuno anni. A suo discapito questo giamaicano che al reggae ha preferito il soul può, indubbiamente, citare eventi avversi che ne hanno rallentato la carriera. A cominciare dalle vicissitudini che nel 1980, quando era sotto contratto con la EMI, avevano impedito la pubblicazione di un album registrato con ospiti del calibro di Marvin Gaye e Sly & The Family Stone. Erano solo alcuni degli amici che si era fatti nel corso di una carriera costellata di
incontri e collaborazioni importanti: da Long John Baldry ad Arthur Brown, da Pat Rizzo dei “War” a The Four Seasons. Un po’ per la delusione e soprattutto per amore si era ritirato in Israele, un esilio da cui l’hanno strappato gli australiano Gideon e Daniel Frankel che, innamorati della voce di Roy, decisero di scrivergli nuovi brani. Nel giro di qualche anno è nato “Memphis”, il cd che nel 2007 gli ha dato la notorietà, con conseguente tour mondiale che l’8 luglio ha toccato lo stadio Puchoz di Aosta per l’ottava edizione dell’ “Aosta Blues & Soul Festival”. Accompagnate da una band “made in Italy”, si sono così, potute ascoltare interpretazioni intense di ‘Don’t Call It Love’ o ‘So Strange’, ma, anche, le atmosfere giamaicane di “Half Past July” e, perfino, una “pickettiana” cover di “Hey Jude”. In molti hanno finito per concordare con il compianto Willie Mitchell, il produttore di tutti i più grandi artisti di Memphis (da al Green ad Ann Peebles) che, dopo aver ascoltato “Memphis” aveva detto: «Chi avrebbe potuto pensare che un cantante nato in Giamaica e che vive a Tel Aviv avrebbe salvato la Soul Music negli U.S.A.»