Per il concerto di uno che è stato nominato Patrimonio dell’Unesco non ci poteva essere cornice migliore che il Teatro Romano di Aosta. Cristiano De Andrè lo è, infatti, diventato in quanto autore della canzone “Notti di Genova” («tendo ad essere tutelato perché da solo faccio danni», ha commentato). Ma monumento, del cantautorato italiano, è, in ogni caso, papà Fabrizio che Cristiano inevitabilmente evoca per il cognome, la voce e gran parte del repertorio sciorinato il 2 agosto.
Un padre con cui Cristiano ha avuto un rapporto problematico di cui ha parlato anche in “Sangue del mio sangue” (“Noi due che così simili, stessa rabbia stessa allegria”, ma, anche, “sangue contro sangue”), canzone dell’ultimo cd “Come in cielo così in guerra”. «Era una persona molto schiva e timida,- ha ricordato prima del concerto- per cui, per esempio, negli anni Ottanta, non ha voluto incontrare Bob Dylan che voleva conoscerlo. In alcune cose siamo simili, ma io sono più malleabile, meno autocritico e perfezionista. Questo mi frena perché mi impigrisco, ma ho bisogno di stare bene, e lui, con la sua tendenza all’autodistruzione, non viveva bene.»
Non avrà vissuto bene, ma ha fatto stare bene generazioni di italiani creando alcuni dei capolavori (da “Verranno a chiederti del nostro amore” a “Canzone dell’amore perduto”, da “Ti tagliassero a pezzetti” ad “Andrea”) che il figlio, oggi cinquantaduenne, ha interpretato ad Aosta, in una nuova veste acustica, intercalandoli alle proprie composizioni.
«Sul palco– ha continuato Cristiano- sono solo con il chitarrista Osvaldo Di Dio perché ho voluto ritornare alla primordialità delle canzoni: com’erano, cioè, al momento della loro creazione. Anche quelle di mio padre, molte delle quali ho visto scrivere: da “Quando verranno a chiederti del nostro amore”, scritta per mia madre, a quelle composte con De Gregori. In “Non al denaro” sono stato io a scegliere il nome Elmer che compare in “La collina”. Anche se ero piccolo le sue canzoni mi piacevano perché erano fotografiche, per cui, anche se non capivo bene il significato delle cose, visualizzavo immagini che mi piacevano.»
Al Teatro Romano Cristiano ha confermato il suo talento di multistrumentista (ha suonato chitarra, bouzouki, piano e violino), coltivato con seri studi al Conservatorio Paganini di Genova, nonostante l’opposizione del padre. «Ha cercato in tutti i modi di farmi cambiare idea, ripetendomi che il cognome mi avrebbe creato problemi nella carriera musicale. Io, però, sentivo di averlo nel sangue e alla fine credo anche lui abbia capito che avevo ragione.»
Il suo ultimo cd, “Come in cielo così in guerra”, che contiene anche “Invisibili” (Premio della Critica e Premio miglior testo all’ultimo Festival di Sanremo) , è un album anche di denuncia sociale di anni caratterizzati da un degrado culturale e politico “che non abbiamo mai passato dal Medioevo”. «Avevo bisogno di fare un album forte. Sono critico verso chi ci ha truffato, togliendoci perfino la forza di dire basta. Adesso, in genere, le canzoni non parlano degli anni orribili che stiamo vivendo perché la musica si è abbastanza omologata alla società. Per cui si preferisce fare poesia che andare contro i mulini a vento, anche perché, sparando contro una società che un po’ abbiamo voluto, alcuni rischiano di spararsi addosso. E, poi, non si sa contro chi sparare perché il potere è diventato così subdolo che si infila dentro la società come un batterio.»