“Bien saper, bien coiffer, bien parfumer”. Le parole della canzone “Matebo” del congolese Papa Wemba, che ne è stato uno degli ideologi, sintetizzarono, nel 1979, la filosofia che caratterizza La Sape (abbreviazione di Société des Ambianceurs et des Personnes Élégantes), il movimento sociale nato a Brazzaville che ha visto dandy congolesi mischiare la moda francese con elementi appariscenti della propria tradizione, creando uno stile che, da segno di status, si è trasformato in rivendicazione di identità e, durante la dittatura Mobutu degli anni Settanta, in aperta ribellione.
I sapeur hanno ispirato alle sorelle francesi Élodie e Delphine Chevalme le opere fino al 15 aprile si possono ammirare nella Sala espositiva della Finaosta nella mostra curata da Patrizia Nuvolari, in collaborazione con l’Amministrazione regionale e l’Alliance française, nell’ambito delle Journées de la Francophonie.
La maggior parte dello spazio espositivo è occupato dalle serie “Greffes de l’Histoire, Histoire de Griffes” in cui le trentasettenni gemelle francesi hanno ritratto i sapeurs in undici coloratissimi acrilici su carta intelata e in otto fotografie stampate su teli di alluminio, gli stessi che servono da coperte di sopravvivenza ai migranti che attraversano il Mediterraneo. «Come i migranti– scrive nel catalogo la Nuvolari- anche i sapeurs compiono un loro viaggio, questa volta immaginario, verso un altrove dove possono sentirsi riscattati da una condizione di povertà ed essere felicemente Qualcuno. Sono immagini indecorose, macchiate, contaminate dal supporto insolito che le rende poco leggibili, poco “belle”, così come lo sono i migranti nella loro disperata ricerca di una redenzione.»
Su una parete dell’ingresso sono, invece, disposti i “Papiers Ordinaires”, nove coloratissimi ritratti a pennarello su carta di BouBoys, giovani africani che vestono all’occidentale, incorniciati coi tipici tessuti africani dai disegni bizzarri conosciuti con il nome di Wax, frutto della contaminazione coi batik giavanesi.
«Il nostro interesse per l’Africa– hanno spiegato le sorelle Chevalme- è dovuto al fatto che, come popolo francese, abbiamo una storia in comune con gran parte dell’Africa. E, proprio per questo, non dovrebbe costituire un fardello solo per la cosiddetta “gente di colore”. Il nostro sguardo è variopinto e vitale come è vitale tutto ciò che nasce dall’ibridazione tra le culture, mettendo continuamente in discussione ogni definizione precostituita di cultura e nazione.»