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MUSICA INDIE

I WE ARE WAVES tornano al P-Fucktory Studio di Patrick Passuello

«Voglio essere arrogante. Se succede qualcosa di culturalmente importante ad Aosta è grazie a Patrick Passuello, che ci mette lo studio, la faccia e i soldi». Come dare torto a Fabio “Viax” Viassone, cantante e chitarrista dei We Are Waves, la band torinese di ispirazione new wave e post-punk che il 6 settembre è tornata dopo 5 anni al P-Fucktory Studio di Patrick Passuello per l’ennesimo B.Y.O.B. Party che l’artista aostano vi organizza da anni. Dopo la pausa dovuta al Covid, è stato un altro grande “sciuccescio”, come lo definisce lui. Gli ingredienti sono stati gli stessi: la sede (un garage trasformato in loft post atomico), le vettovaglie portate dai partecipanti (in particolare il beveraggio), la musica (oltre ai We are Waves,il djset di Giulia Napoli) e, soprattutto, la gente accorsa al richiamo di questo festaiolo “artista delle feste”.

La band torinese, che, oltre a Viassone, comprendeva lo scatenato Marco Di Brino al basso, Cesare “Cisa” Corso ai synths e Adriano Redoglia alla batteria, non si è risparmiata, con un paio d’ore di concerto ad alta tensione emotiva, in cui ha pescato da un repertorio frutto di un’attività decennale.

Presentando pezzi anche del loro quarto album “Cave“, scritto durante il periodo pandemico e pubblicato nel novembre 2022 dall’etichetta valdostana Meatbeat Records, in cui hanno superato la fase delle influenze per esprimere semplicemente il loro mondo.

Un album che hanno introdotto con questo testo: “Cave è la caverna dove le cose si nascondono. Dove quello che non vuoi vedere ha il suo posto in un antro buio, ed esiste a prescindere che tu sappia o meno dove si trova. Cave è la caverna che ognuno di noi ha dentro di sé. I mostri, i segreti, le debolezze, le fragilità; le cose che mai vorrebbe essere. Cave è la casa che ti ha protetto e intrappolato in 2 anni di lockdown, dove ripararsi dai propri mostri è diventato impossibile, e il confine tra sanità e follia si è assottigliato. Cave è anche il tentativo di reagire e ribellarsi a tutto questo, e farlo con l’unico mezzo che conosciamo: la musica. Un ritmo ossessivo di basso, quasi banale nella sua semplicità. Un drumming minimale e teso, registrato con 2 batterie per rendere il suono più caotico e intenso. Il tutto incastonato da un tema di synth che ritorna, ciclico, come ciclico è il susseguirsi delle onde, tra alta e bassa marea. Una metafora di noi stessi, di noi tutti, destinati a ergerci maestosi per schiantarci rovinosamente il minuto dopo. Per poi risalire, in un continuo flusso che dura una vita. La nostra. E poi c’è la voce. Un sussurro iniziale, quasi un’omelia, che dedica il brano agli “uomini pieni di guai ma che non possono versare una lacrima”, per poi urlare, nella parte finale che “non c’è più tempo per negare le proprie emozioni”. La vita corre via, veloce, è ogni giorno può davvero essere l’ultima occasione che abbiamo per essere noi stessi. La vulnerabilità maschile è un tabù in questa società dominata da un concetto tossico di mascolinità, dall’ostentazione del potere, dall’inseguimento di vite perfette a misura di social. Il maschio cosiddetto “alpha”, il capobranco, è incapace di mostrare debolezza. Ma dentro ognuno di noi c’è un turbine di emozioni che lotta per trovare una via d’uscita. Abbiamo tutti imparato a nasconderlo, a ingabbiare la nostra anima dietro una corazza o una parvenza di “normalità”. Ma non siete stanchi di fingere? Non siete stanchi di celare la vostra vera essenza, qualunque essa sia? Io personalmente sono esausto di vivere in un mondo dove il fragile viene visto come un difetto da correggere, anziché come una preziosa parte della nostra umanità. Per questo il trucco estremo in faccia, a incarnare il maschile e femminile che convivono in me, quasi a mostrare il proprio “doppelgänger” di lynchiana memoria. Un coming out? Una richiesta d’aiuto? Un “gettare la maschera” usando proprio il trucco? Mi guardo intorno e vedo altri uomini, tutti con le loro maschere di forza, di potere, di indifferenza. Ma so che sotto quel trucco (quello sì, che è un trucco) si nasconde un universo di emozioni e fragilità. Cerco di tirare fuori la parte più fragile di essi, di incrinare quelle corazze che li separano dal loro vero io. Talvolta ci riesco, talvolta no. Ma è il tentare stesso il fineultimo di un progetto che, nel suo stesso nome, manifesta un desiderio di empatia e catarsi. We Are Waves. Noi siamo onde; non dimentichiamolo mai”.

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