«Non chiamatemi Maestro», ha ripetuto Enrico Ruggeri sul palco del Teatro Giacosa di Aosta la sera del 13 otttobre. Modestia? No, scaramanzia. «Nella parte finale della vita di un cantante ci sono quattro fasi. Nella prima cominciano a chiamarti “Maestro”, nella seconda, che purtroppo è già iniziata, ti danno i premi alla carriera, nella terza è quando arrivi in trasmissioni nazionalpopolari come “Domenica in” ed il pubblico si alza in piedi per una standing ovation. Quarta fase: muori». E’ stato uno dei momenti più divertenti di una serata in cui una decina di sue canzoni, eseguite con Francesco Luppi al pianoforte, si sono alternate ad un dialogo con il giornalista Massimo Cotto all’interno della seconda edizione del festival “Riverberi”.
«Da sempre– mi aveva spiegato Cotto- penso che esista una terza via dello spettacolo, che non è quella del concerto o dell’intervista ma quella in cui immaginiamo di sederci davanti un camino o ai falò, come si faceva d’estate una volta, per parlare con qualcuno che ad un certo punto tira fuori la chitarra e canta. Raccontando aneddoti e storie conosceremo, quindi, un po’ da vicino personaggi come Ruggeri ,e l’indomani Irene Grandi. Sono davvero incontri ravvicinati del terzo tipo in cui viene fuori il carattere delle persone. I loro sogni, ma anche le loro fragilità e paure».
Cotto ha un’amicizia consolidata con Ruggeri di cui nel 2001 ha scritto la biografia ufficiale: “La vie en rouge”. «Enrico è storicamente l’anello di congiunzione tra il rock e la canzone d’autore.– afferma- La sua importanza è nell’avere spostato la macchina da presa, raccontando certe storie da una diversa prospettiva. Basterebbe citare canzoni come “Il mare d’inverno”, “Quello che le donne non dicono” e “Il portiere di notte”. Nelle nostre serate si conferma un’animale da palcoscenico che sa passare dalla leggerezza alla profondità».
Enrico è, infatti, passato dal racconto della depressione del padre («mi ha insegnato il disprezzo del ricco e la rabbia del povero») agli scherzi a musicisti come Loredana Bertè ed Umberto Tozzi, dagli alti e bassi della carriera («Stiamo esagerando i momenti di ascesa e discesa. Gli amici veri li ho conosciuti nel momento di maggior successo perché non erano invidiosi») alla passione calcistica («Musica a parte, la mia più grande emozione è stata, giocando a San Siro con la Nazionale Cantanti, segnare due gol a Sebastiano Rossi, portiere del Milan, sotto la curva dell’Inter»).
Enrico ha anche, e soprattutto, ricordato come abbia sempre evitato di intrupparsi nel branco («appartengo ad una generazione in cui bisognava essere diversi, adesso invece i ragazzi si somigliano tutti e si sentono forti nel mucchio»). Eccolo, quindi andare contro il Potere, che nel 1977 ha identificato nel pensiero unico del Movimento Studentesco e della Sinistra extraparlamentare (con lo scherzo del falso concerto dei Decibel in una discoteca milanese che il 4 ottobre 1977 scatenò una megarissa tra punk e comitato antifascista di quartiere) e più recentemente, in quello sul Covid («in quel periodo mi sentivo come lo sceriffo nero del film “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” di Mel Brooks cui una nonnina regala una torta per ringraziarlo, pregandolo, però, di non dirlo a nessuno perché tutto il paese l’aveva emarginato per razzismo»).
«Ricordare è il tuo patrimonio. I ricordi sono quello che siamo», ha concluso Enrico. I suoi ricordi musicali sono, poi, stati dei momenti ad altissima intensità emotiva. A cominciare dall’iniziale “Dimentico”, pubblicata quest’anno dopo aver toccato con mano il dramma della Malattia di Alzheimer grazie all’Associazione Meridiana di Monza ed al film “The Father”. E poi “Il portiere di notte”, “Il mare d’inverno”, un accenno a “Polvere”, “Peter Pan”, “Lettera dal fronte”, “Primavera a Sarajevo”, un medley di canzoni d’amore (“I dubbi dell’amore”, “Nuovo swing” e “Non piango più”).
Perle contenute nei 39 album pubblicati in quasi mezzo secolo di carriera. «Tutti i successi mi hanno stupito, ma ci sono state decine di canzoni che meritavano più fortuna. Come le recenti “Forma 21”, che racconta gli ultimi istanti di vita di Lou Reed che morì mentre stava eseguendo la posizione di Tai Chi Forma 21, e “La mia libertà”, elegante vaffanculo che è anche un mio epitaffio: “La mia libertà sarà restare solo/La felicità sarà spiccare il volo“».