Con la sua musicalità popolare, “Tre civette sul comò”, una delle filastrocche italiane più note, ha conquistato schiere di ragazzi. Dietro l’innocente cantilena cela, però, un fascino sfuggente che è stato, addirittura, oggetto di un saggio di Umberto Eco. Diversi piani di lettura ha anche il terzo cd di Naïf Hérin, in vendita dal 12 aprile, che, non a caso, si intitola proprio “Tre civette sul comò”. Non potrebbe essere diversamente visto che è il frutto maturo delle variegate esperienze che la giovane cantautrice valdostana ha accumulato in otto anni di attività contrappuntati da collaborazioni eccellenti. Da quella con la “New Power Generation”, il gruppo di Prince, al chitarrista Marc Ribot, che ha donato inquietudine ad alcuni pezzi del suo cd “...è tempo di raccolto”. E’, poi, dello scorso anno l’inclusione di due sue canzoni nel cd “Giorni di Rose” di Paola Turci. Per non parlare delle continue puntate di Christine in terra di Francia, dove lo scorso anno ha pubblicato il cd “Faites du bruit” e partecipato alla prestigiosa trasmissione televisiva “Taratata”. Otto anni di lavoro matto e disperato che hanno forgiato un’ “artigiana della canzone”, come si autodefinisce, capace in quest’ultimo lavoro di costruire dodici “canzoni-civetta” che dietro l’accattivante orecchiabilità celano inquietudini armoniche e melodiche in grado di accontentare i palati più fini. Rispolverando il fascino leggero degli anni felici della canzone d’autore, la cantautrice di Vignil ha saputo coniugare l’immediatezza della musica popolare con sonorità moderne costruite con l’aiuto del marito Simone Momo Riva ed ospiti come Andrea “Manouche” Alesso (chitarre), Stefano Blanc (violoncello) e Dave Moretti (armoniche). “La differenza sta nel senso di appartenenza”, canta ne “L’uomo di poche parole”, uno dei gioiellini di un cd che, nell’era del villaggio globale, teorizza il ritorno ad un villaggio universale fatto di rapporti veri (“l’Italia generosa e premurosa” ricordata in “Annarosa”), di speranze che aiutano a superare i momenti tristi (“Una giornata triste”), di passioni capaci di accendere (“E’ l’inferno”). In un mondo che soffre di “grave solitudine virtuale” c’è bisogno di un “saggio Menestrello da Strapazzo” come lei, capace di risvegliare, con una musica dal respiro corale, “un desiderio non solamente mio”. Così canta in “Il mio Anton scorderò”, l’ultimo brano del disco in cui ha saputo fare sua una canzone di Cesária Évora, tradotta in italiano da Alberto Zeppieri, che sarà inserita in “Capo Verde, terra d’amore”, un progetto per il World Food Programme dell’ONU. Perché anni di esperienze in giro per l’Europa hanno insegnato a Christine la “virtù magica” di trovarsi musicalmente a suo agio tanto tra le sofisticate “lumières” di Parigi (cantata in “La Ville Lumière”) quanto tra le lucciole di una festa di paese (“La festa delle lucciole”). Il segreto, in fondo, è far musica con “dita affusolate d’amore”, le stesse della sua “Annarosa” che dei panni della gente che lavava sapeva conservare le avventure, riconoscere i dolori, mettere da parte petali di rosa.