“Mi meraviglio, o parete, che tu non sia ancora crollata sotto il peso delle scempiaggini di tanti scribacchini (admiror paries te non cecidisse ruinis qui tot scriptorum taedias sustineas)“.
Conserva una sua validità quanto scrisse, più di duemila anni fa, un anonimo sui muri dell’antica Pompei. Da quei primi “programmata”, scritti con vernice rossa o nera in appositi spazi, i manifesti elettorali hanno sempre avuto un posto di rilievo nelle campagne elettorali.
Nel bene e nel male, vista la becera volgarizzazione degli ultimi anni che, in Italia, fa quasi rimpiangere i manifesti semplici ed immediati del dopoguerra, che, essendo diretti ai figli di un’epoca più povera e meno acculturata, badavano al sodo con un linguaggio grafico immediato basato sul disegno.
Nell’attuale società di “polli d’allevamento”, invece, gli elettori sono diventati consumatori da “prendere all’amo” con slogan e tecniche comunicative riprese dalla pubblicità. L’importate è coinvolgerli nel messaggio titillandone la convinzione di essere “liberi e trasgressivi” nella scelta. Che, cioè, possano, come cantava Gaber, “cambiar tutto, a patto che si lasci tutto come era.”
Una “libertà illimitata di espressione e di parola” che si esalta sul web, dove, grazie al progresso tecnologico, i muri virtuali di Facebook e Twitter si riempiono di manifesti “fai da tè” realizzati da “scribacchini” più o meno ispirati.
Un’immensa vetrina in cui i “polli di allevamento” dicono tutti insieme la loro, facendo, per un periodo più o meno breve, “un bel coro di opinioni fino a quando il fatto non è più di moda.” Convinti di far la storia con il virtuale agitarsi di “vite sbatacchiate” che Gaber e Sandro Luporini (l’autore dei suoi testi) paragonavano al “riflesso involontario di una coda di lucertola tagliata”.