Giorno dopo giorno in Italia spuntano come funghi gli esperti di Stato Islamico, Jihādismo e fondamentalismo islamico. Quasi sempre, però, con il vizio d’origine di spiegare il fenomeno attraverso fonti di seconda mano, tenendosi ben lontani da dove questo è nato e sviluppato.
Fa eccezione il blogger e regista lucchese Gabriele Del Grande, che il mondo arabo lo conosce bene, visto che, nel 2006, ha fondato l’osservatorio Fortress Europe, nel cui blog sono elencati tutti i morti o naufragi in Europa e nel Maghreb a partire dal 1988. Gabriele si è, infatti, “sporcato le mani”, andando a raccogliere testimonianze dirette durante un avventuroso viaggio tra Kurdistan iracheno e Turchia (dove, nell’aprile 2017, ha trascorso un paio di settimane in carcere).
Nelle duecento ore di interviste, condotte in arabo, ha, così, intervistato una settantina testimoni diretti. Quattro di questi sono diventati i protagonisti del suo libro “Dawla. La storia dello Stato islamico raccontata dai suoi disertori”, edito da Mondadori, che, mischiando geopolitica e storytelling in una sorta di romanzo del reale, ha cercato di spiegare la “Dawla” (che in arabo significa “Stato”, ed è uno dei modi in cui gli affiliati dello Stato islamico chiamano la propria organizzazione).
L’11 giugno Gabriele lo ha presentato alla Cittadella dei Giovani di Aosta, dialogando col ventiseienne Ismail Fayad. Uno, nato ad Aosta da padre siriano, che nel 2016 e 2017 ha fatto volontariato per Hot Food Idomeni, l’associazione umanitaria nata per servire migliaia di pasti caldi nell’inferno dei campi profughi di Idomeni, tra Grecia e Macedonia, e Belgrado.
E’ proprio dal carcere di massima sicurezza siriano di Saydnaya che, nel 2005, parte il racconto del libro. Lo stesso che dal 2011, dopo la rivoluzione fallita, è diventato un “mattatoio di essere umani”, con tredicimila reclusi impiccati. Le storie dei quattro protagonisti si intrecciano con quelle della guerra per procura contro Bashsar al-Asad, del ritorno del Califfato, degli attentati che hanno sconvolto l’Europa.
E se Ayham, detenuto politico per sei anni a Saydnaya per aver “indebolito il sentimento nazionale” chiedendo riforme democratiche, e uno degli intellettuali illusi dalle speranze di cambiamento nate al momento dell’avvento al potere di al-Asad, gli altri tre sono dei disertori che riassumono in loro i tipi principali di combattenti per lo Stato islamico.
Abu Mujahid è un siriano che combatte per sete di giustizia e nel Dawla ha fatto carriera come agente dei servizi segreti interni ed emiro della polizia morale, l’hisba. Abu Karim, invece, è un foreign fighter giordano, in fissa con l’esoterismo, giunto in Siria seguendo le profezie sulla fine del mondo. Abu Usama, infine, è un avventuriero iracheno, che si è addentrato fino al livello più oscuro dei servizi segreti del Dawla, quello responsabile della pianificazione degli attentati in Europa. «Sono stati dei carnefici.- spiega Del Grande- e mi sono chiesto se valeva la pena, anche solo eticamente, prestare attenzione alle parole degli ex affiliati del Dawla anziché a quelle delle loro vittime. Credo di sì e me ne assumo la responsabilità. Il punto di vista dei carnefici è certamente più scomodo di quello delle vittime con le quali tutti noi empatizziamo, con un effetto talora consolatorio, rimanendo però del tutto incapaci di intravedere le ragioni sulle quali il Dawla ha costruito il consenso in tutti questi anni. Non li ho voluti giustificare né umanizzare, ma solamente cercare , attraverso le loro storie, una risposta, ammesso che ve ne sia una, a quell’antica domanda sulla banalità del male che da sempre riecheggia nelle nostre teste dopo ogni guerra.»