Se per molti tornare è un’abitudine, non lo è di certo per Carla Carmen Consoli, che, pure, ha scelto “L’abitudine di tornare” come titolo del cd che ha segnato il suo grande rientro dopo una pausa di riflessione durata un lustro.
A convincere la quarantunenne cantautrice catanese a tornare è stata, infatti, un’urgenza. Lo si avvertiva nella felicità creativa che caratterizza le dieci tracce del cd pubblicato lo scorso anno, se ne è avuta una conferma durante il concerto che il 6 febbraio la Consoli ha tenuto allo Splendor di Aosta per la Saison Culturelle. «Faccio i dischi solo se ho un’urgenza.– ha confermato prima del concerto- Non ho la smania di fare la cantantessa al centro dell’attenzione, se non trovo una motivazione per un nuovo disco sto benissimo a casa ad aiutare mia madre a seguire l’azienda di famiglia ed occuparmi di mio figlio.»
L’occuparsi degli ulivi e ciliegi che coltiva ai piedi dell’Etna o accudire il piccolo Carlo Giuseppe non poteva, però, appagare appieno questa inquieta siciliana che sui palchi di mezzo mondo ha passato più della metà della sua giovane vita. «Ho iniziato ad esibirmi a 13 anni, spinta da mio padre che era un bravissimo chitarrista che amava il jazz anni Cinquanta, il blues di B.B. King ed il grande cantautorato italiano. E’ stato lui ad insegnarmi i primi accordi, a portarmi alle audizioni ed giocare con me a comporre canzoni. Grazie a lui ho cominciato a sognare di diventare come le rockstar degli anni Settanta che non facevano musica per vendere i dischi ed andare in classifica ma per l’urgenza di esprimersi. Quello che manca ai giovani d’oggi è proprio la capacità di sognare. Ormai sono disillusi, e, visto che tutto si fa per il dio denaro, non vogliono perdere il tempo, che è denaro, sognando. Prima che economica la crisi attuale è umana. Io la vivo come un momento di transizione da cui imparare, perché, come mi piace ripetere: più buia è la notte più l’alba è vicina.»
Le sue riflessioni su questa crisi hanno generato molte delle canzoni dell’ultimo cd che hanno costituito l’ossatura di un concerto valdostano in cui è stato accompagnata da una band costituita dallo storico collaboratore Massimo Roccaforte alla chitarra, Roberto Procaccini alle tastiere, Fiamma Cardani alla batteria, Luciana Luccini al basso, Valentina Ferraiuolo alle percussioni, Adriano Murania al violino e Claudia Della Gatta al violoncello (con il suggestivo intervento di Elena Guerriero al piano in “Non volermi male”).
Pur rifiutando il ruolo di guru («non sono Ippocrate, dico cose ovvie…ma le dico col cuore»), ha cantato con “parole d’autore intrise di dolore” dell’omertà dell’”esercito silente” della sua Sicilia, di femminicidio (“La signora del quinto piano”), di migranti e media (“La notte più lunga”), della spietatezza di un mondo in cui una “multa benevola sul parabrezza è la prova che ancora qualcuno ci pensa” (“E forse un giorno”).
La matura lucidità con cui l’ha fatto («qualcuno dice che sembra che mi sia ingoiato un pensionato») si è trasformata in spietatezza nelle canzoni in cui protagonista è, invece, l’attuale amore liquido di esseri che decidono di “dare voce a una nascente identità” sessuale (“Ottobre”) o, invece, “fedeli ancorati all’ovile di sempre” non scelgono (“L’abitudine di tornare”). O, ancora, quando ha analizzato la puerile fragilità di “oceani deserti” o la “sintonia imperfetta” di coppie in cui regna “un’ostinata consuetudine, una forza d’inerzia”. Il tutto reso con una piacevolezza e varietà musicale da easy listening, che non sempre e non completamente riesce a celare le inquietudini ed asprezze dei testi.
C’è stato, naturalmente, spazio anche per i suoi cavalli di battaglia (da “Amore di plastica” a “L’ultimo bacio”, da “Geisha” a “Parole di burro”) che hanno convinto il pubblico aostano a tributarle un autentico trionfo e lei, emozionata, a dire, con accento catanese, “qualche volta mi prenderà un embolo.” Così, a teatro svuotatosi, ha “avuto la pensata” di tornare sul palco per concedere al piccolo mondo rimasto a crogiolarsi nelle vibrazioni trasmesse dalla sua voce «fumosa e bassa, graffiante di rabbia» la gioia immensa di un ulteriore bis: una intima versione acustica di “Confusa e felice”. Salutando, infine, con un ultimo bacio. Di quelli che, mai come nel suo caso, lasciano “il senso spietato di un non ritorno.”